Il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta.

Paul Valéry

Da Harakiri a Charlie Hebdo, lo strano destino della satira

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Stranezza del destino per Charlie Hebdo. Il settimanale nasce nel 1970 proprio dalle ceneri di un predecessore soppresso dalla censura. Si chiamava L’hebdo hara-kiri e fu chiuso dal Ministro degli Interni per un titolo irriverente sull’incendio di una discoteca a Colombay, luogo in cui risiedeva De Gaulle, appena defunto. Le vittime del disastro furono 146, ma il giornale parlò di un solo morto, alludendo al Generale. Mentre imperversa la solita canea mediatica sfugge un meccanismo intrinseco della specie umana, il riso, che la distingue dalle altre. Aristotele dedicò all’umorismo un intero volume, perduto e ritrovato nella finzione letteraria che Umberto Eco costruisce con Il nome della rosa. Qui, allo stesso modo degli odierni fondamentalisti, un monaco del medioevo, Jorge da Burgos, uccide quelli venuti a contatto con il libro proibito avvelenandone le pagine da sfogliare. Aristotele dedicò all’argomento anche brani della Poetica, dove raccomanda di esercitare l’eutrapelia, la virtù del buon umore. Si tratta di avere rapporti di cordialità con gli altri per una migliore convivenza civile. L’esatto contrario di quanto accade oggi nella contrapposizione fra le culture, nell’avverarsi del motto di un grande scrittore che fu anche maestro di satira, Ennio Flaiano: «Se i popoli si conoscessero meglio, si odierebbero di più». La globalizzazione e il circuito planetario delle notizie pongono tutti a confronto, con il risultato di acuire intolleranze, ostilità e guerre.

L’evoluzione dell’umorismo e della satira

1960s Hara Kiri il padre di charlie hebdoAristotele era stato ancora più preciso nell’analisi del valore formativo della commedia, definita «l’imitazione di persone che valgono meno, ma non per un vizio qualsiasi, giacché il ridicolo è una parte del brutto». Precisando che «il ridicolo, infatti, è un errore o una bruttura che non reca né sofferenza né danno, proprio come la maschera comica è qualcosa di brutto e stravolto, ma senza sofferenza». Riflessioni che anticipano di un millennio quelle di Henri Bergson in Il riso. L’esponente francese del neopositivismo logico ribadì che il comico scaturisce dalla riduzione della realtà a mera interazione di forze fisiche. Si ride di chi scivola su una buccia di banana per il cedimento del corpo umano alla gravità, cancellando il pensiero che la caduta abbia potuto procurare danni.

La satira va oltre. Coglie la fisica dell’irragionevolezza dappertutto, specialmente nel potere, nel sacro, nel convenzionale di un’umanità sempre inadeguata. Giovenale non osò mai attaccare la classe dirigente romana della quale era cliens. Orazio approfittò della maggiore libertà concessa da Ottaviano, pure non intaccò l’autoritarismo che gravava sul mondo romano. Non così Oscar Wilde. Dal suo genio iconoclasta l’Età Vittoriana usciva spietatamente alla berlina. L’autore del Ritratto di Dorian Gray confermava le parole aristoteliche sul ridicolo considerato parte del brutto. Non gliela perdonarono e il processo che subì per la relazione con Lord Alfred Douglas si allargava dall’omosessualità all’intero universo espressivo di Wilde. La condanna alla prigione dura fu una pena capitale camuffata. Sul giornale satirico L’Asino, fondato da Guido Podrecca nel 1892, si attaccava in termini esilaranti il governo Giolitti. Poi, però, arrivò il fascismo e nel 1925, dopo l’omicidio di Matteotti, le pubblicazioni vennero sospese.

L’avvento del fascismo

Nella Germania nazista, nemmeno Hitler osò intervenire sul più grande cabarettista satirico dell’epoca, Karl Valentin di Monaco. La sua specialità erano i giochi di parole dagli effetti devastanti sul linguaggio e sul costume. «Spesso le sue battute mi hanno fatto ridere sinceramente» ammise il Führer nel 1937. Valentin replicò: «E invece i suoi discorsi non mi hanno mai fatto ridere, e ora purtroppo me ne devo andare, buon giorno signor Hitler». Altrettanto irripetibile Giovanni Guareschi. Troppo noto per la saga di Don Camillo e Peppone, non si gli rende abbastanza giustizia per l’intransigenza dei suoi ideali. Tanto da onorarli fino ad andare in prigione. Il caso scoppiò con una vignetta di Carletto Manzoni sul settimanale Candido. Vi si raffigurava Einaudi che avanzava davanti a una schiera di bottiglie di vino, anziché di corazzieri. Su ognuna c’era la scritta “Poderi del Senatore Luigi Einaudi”. Si alludeva alla possibilità che il Presidente della Repubblica approfittasse della carica a fini commerciali. Immediata l’accusa di vilipendio del Capo dello Stato, che toccava a Guareschi, direttore responsabile del Candido. Lui non si sottrasse e scontò otto mesi di prigione con la condizionale.

Luttazzi

IL MALE lo charlie hebdo italianoDaniele Fabbri, in arte Luttazzi, dapprima attacca a colpi di risate un monumento del romanzo italiano negli anni ’90, Va’ dove ti porta il cuore, parodiandolo con Va’ dove ti porta il clito. Susanna Tamaro e la Baldini & Castoldi lo citano per plagio, ma Luttazzi vince la causa. Poi, ispirandosi al Tonight Show di Johnny Carson, il comico di Sant’Arcangelo di Romagna vara il suo Satyricon, che culmina nell’intervista a Travaglio sul saggio L’odore dei soldi. Berlusconi, allora Presidente del Consiglio per la seconda volta, parla dalla Bulgaria di “uso criminoso” della televisione pubblica. Luttazzi viene cancellato dai palinsesti insieme a Enzo Biagi e a Michele Santoro. Anche in questo caso seguì anche un’azione legale: la richiesta di danni per 41 miliardi da parte di Berlusconi, Fininvest, Mediaset e Forza Italia. Di nuovo vinse Luttazzi.

 Lo Charlie Hebdo italiano

Che ora il rischio per la satira passi dalla censura, dalla galera e dalla carta bollata ai colpi di armi d’assalto? Il Male era l’equivalente italiano di Charlie Hebdo e aveva un’anima tutta pugliese, quella di Andrea Pazienza, da San Severo, Foggia. L’epopea del settimanale è ormai iscritta negli annali della satira. Fuori scorrevano tragici gli anni di piombo, le gambizzazioni, le P38, il rapimento di Aldo Moro. Dentro la redazione del Male esplodeva la voglia di reagire alla notte della Repubblica con la luce scanzonata della risata. A volte cattivissima, a volte bonaria. Tanto che Sandro Pertini, deliziato dalle vignette che Paz gli dedicò, volle telefonare personalmente a casa del disegnatore, per congratularsi. Rispose il professore Enrico Pazienza, il padre di Andrea, fine acquerellista e straordinario personaggio di suo, che colto alla sprovvista, credette in uno scherzo. Il contributo di Paz alla satira contemporanea lascia un’eredità non solamente grafica. L’artista sanseverese corredò le proprie tavole di un gergo inimitabile, che contaminava il dialetto dauno con le nuove parlate metropolitane. Nei pennarelli di Pazienza faceva vivere e parlare con trent’anni di anticipo un mondo disgregato e fragile. La società del rischio, analizzata dallo scomparso Beck, a fumetti.

Enzo Verrengia

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