"Tutto è fatto per il futuro, andate avanti con coraggio".

Pietro Barilla

Dietro l’Isis l’atroce utopia delle potenti tribù irachene

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Dal cielo non si comprende quello sta succedendo in terra. Gli Stati Uniti hanno intensificato i raid aerei contro le postazioni dei miliziani islamici dell’Isis in Iraq ma sembrano drammaticamente ignorare quello che davvero sta accadendo giù a molti chilometri di distanza dai droni imbottiti di bombe che hanno inviato nell’area a difesa dell’Occidente contro spettri sanguinari e invisibili che s’aggirerebbero sul pianeta implacabili, spaventosi e pronti a colpire. Mi dispiace dirlo, ma quella messa in campo da Washington e da Bruxelles non appare una strategia vincente. A meno che non ci sia dell’altro. E cioè interessi così forti che neppure i dietrologi più incalliti ormai sembrano in grado di immaginare. Si arriva sempre al petrolio, certo… Ma il petrolio senza un’estrazione e una distribuzione sicure non è ricchezza ma povertà. Non è oro nero, ma pece ardente. Non paradiso ma inferno. E poi le armi ai peshmerga curdi, perché? Solo perché il loro leader Masoud Barzani, oligarca ricco e potente, in doppio petto blu potrebbe fare la sua bella figura a Wall Street? O perché il Kurdistan iracheno ha promesso di moltiplicare il denaro degli investitori stranieri che in questi anni hanno contribuito alla crescita del suo Pil? Dice una barzelletta che gira a Erbil: quando nascerà uno stato sovrano del Kurdistan, nella capitale saranno innalzate tre statue, una al leader dell’Isis una all’ex premier di Baghdad al Maliki e un’altra a L. Paul Bremer III, l’americano che è stato alla guida dell’autorità provvisoria dell’Iraq e che ha spianato la strada all’autonomia del Kurdistan. In politica, si sa, avere i giusti nemici è meglio che avere i giusti amici.

Isis è il target ma non il problema 

Ma torniamo a quello che sta succedendo a terra, là dove gli americani colpiscono. Isis è il target: una sigla che terrorizza, perché è una sigla terrorista. Isis, lo Stato Islamico dell’Iraq e della Grande Siria, al Dawla al Islamiyya fi al Iraq wa al Sham, la cui nascita è stata proclamata ufficialmente dal suo gran capo e comandante supremo Abu Bakr al Baghdadi nel giugno scorso in una vasta zona di territorio compreso tra l’Iraq e la Siria. Isis, il califfato islamico. Isis, i jihadisti, i figli reprobi e disconosciuti di al Qaeda, i figli dei distruttori delle Torri Gemelle. Isis, il sangue che scorre, i cristiani perseguitati, gli yazidi perseguitati, gli sciiti perseguitati, i curdi perseguitati, gli assassini di giornalisti, i sequestratori e giustizieri del reporter americano James Foley, i presunti sequestratori di altri quattro stranieri, tra cui forse le due volontarie italiane Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, scomparse a luglio ad Aleppo. Isis. Con tutto ciò che di orrendo evoca questa sigla: decapitazioni, impiccagioni, violenze, stupri, odio. Odio e fanatismo. Anche ingratitudine: sono tra i 1500 e i 2000 i jihadisti occidentali, i foreign fitghter, immigrati di seconda e terza generazione nati e cresciuti in Europa, ma anche europei geneticamente doc convertiti a quell’islam fondamentalista e oscurantista che ha rinnegato tutti i suoi principi, tutti i suoi valori, lo stesso libro sacro.Ma Isis non è il problema dei problemi.

Una manciata di fanatici combattenti

“Gli uomini del Califfato sono soltanto un’invenzione dei servizi”, assicura a FUTURO QUOTIDIANO Samir al Qaryouti, giornalista e analista mediorientale. Una manciata di fanatici combattenti, che non arrivano alle 8 mila unità e che senza saperlo l’Occidente ha sostenuto e finanziato in Siria nell’illusione di combattere il regime di Bashar Assad. Atroci, fanatici, spietati, assetati di sangue, disperati. Loro sono il mezzo, di cui si sono servite le potenti tribù irachene per mandare a casa il primo ministro sciita Nuri al Malik. L’Iraq deve scegliersi il suo destino e l’America, l’Europa in questo non devono entrarci. Perché sta accadendo invece? La risposta è semplice: Israele vuole distrarre l’attenzione internazionale da Gaza, dove lo stato ebraico sta perpetrando inaudite atrocità, senza alcuna pietà per i civili. Uno spostamento di orizzonte, simile a quello che ebbe luogo dopo l’11 settembre quando si passò dalla guerra senza quartiere dichiarata nel 2001 a Osama Bin Laden e all’ Afghanistan alla guerra, che doveva essere lampo, iniziata nel 2003 contro Saddam Hussein e durata invece otto anni. Avvenne da un momento all’altro, senza che ci si fermasse a riflettere, sulla base di ormai inconfutabili notizie false sul possesso di armi di distruzione di massa da parte di Baghdad e dei suoi legami con al Qaeda. Questa volta bisogna riflettere e bisogna distinguere, evitando di ripetere gli errori del passato.

Le parole inascoltate dell’emiro al Suleima

Riflettendo e distinguendo si arriva ad altro. Al peccato originale: quello commesso dagli inglesi dopo la fine dell’Impero Ottomano, che con un tratto di penna disegnarono l’Iraq, senza tenere conto di quanto variegato e diverso dalle categorie occidentali fosse quel territorio, come del resto tutto il Medio Oriente. Non tennero conto dei curdi, che erano un’etnia a sé. Non tennero conto delle tribù, potentissime e ignorata anche oggi. Curdi e tribù sono il punto. I Curdi vogliono da sempre stare l’indipendenza e così le tribù. Le tribù vogliono un loro autonomo governo. E parlo delle potentissime e ricchissime tribù che regnano sulla regione irachena di al Anbar, un vasto territorio che l’autorità irachena non è mai riuscita a controllare che confina con Turchia e Siria. Non più tardi del 17 giugno scorso, prima che la situazione precipitasse nell’area, in un’intervista al quotidiano Asharq Alawsat Ali Hatim Al Suleima, l’emiro della tribu di Dulaim, la più grande tribù araba del paese con oltre tre milioni di membri, lo aveva ben spiegato. Al Malik, aveva detto, deve andar via e ci sono solo due opzioni: o bagno di sangue o divisione del paese. Il governo centrale non è una soluzione. Non vogliamo un Iraq che non riesca a rispettare la nostra dignità e religione. Quanto all’Isis, l’emiro aveva osservato: un ristretto numero di uomini e veicoli non può controllare una città come Mosul. Ergo, l’Isis, aveva fatto intendere, è sostenuta dalle tribù di al Anbar. E la sua avanzata è il segno della rivolta delle tribù contro Baghadad. L’emiro aveva anche svelato l’esistenza di speciali commissioni militari costituite per organizzare la rivoluzione nelle province di Anbar, Baghdad, Nineveh, Salah Al-Din e Diyala. Tutte sotto il comando congiunto dei leader tribali e di alcuni alti ex ranghi dell’esercito. Un conflitto locale a ripercussione mondiale. Nemmeno si può parlare di shiiti contro sunniti, perché le famiglie ormai sono mescolate. Ma solo di potere, di controllo del territorio, dove l’Occidente c’entra per via dei pozzi e Foley e tutte le altre vittime sono soltanto strumentali.

La Siria dimenticata Foley, poi, è stato giustiziato, in Siria, fuori dell’area controllata dai clan iracheni, ma la Siria chi se la ricorda più? Chi si ricorda dei presunti bombardamenti chimici di un anno fa, che avevano fatto scattare l’allerta in tutto il mondo, scatenato un’ondata di odio contro Assad e aperto la strada ai jihadisti? Erano tutti pronti a intervenire. Poi invece i raid non ci sono stati, perche? Perché non c’era nessun interesse da salvaguardare, solo donne, uomini e bambini esposti pronti a morire.

 

di Velia Iacovino

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