«Lei sogna di ..far tredici? » Ma lo farà sicuro!

Gianni Rodari

Ecco perché i musei italiani non sono i più visitati al mondo

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I musei italiani non sono fra i più visitati al mondo? Dov’è la notizia, si potrebbe dire. Solo una interpretazione generica e ottimista del tanto parlare della “centralità” dei beni culturali (beni culturali: che espressione burocratica senza pathomuseis…) dovrebbe far pensare, per conseguenza, di essere davanti a gestioni di successo del nostro patrimonio storico e artistico. Ma non è così. Non le abbiamo. Perché? Sostanzialmente perché avere più visitatori non sta nel dna della nostra classe dirigente. Hanno sempre enfatizzato la conservazione (inutile dire che la Costituzione garantisce la cura e tutela, ma anche la valorizzazione) inventando una dialettica tutta artificiosa tra conservazione e sviluppo. Sembra, secondo questo artifizio retorico, che chi sostenga la valorizzazione, inesorabilmente minacci la conservazione. Qualunque buon senso direbbe il contrario: come si fa a valorizzare qualcosa senza averne cura? Addestrati allora a conservare, e senza avere i titoli per fare buone gestioni (per altro inutili, perché finora i musei statali italiani erano, fino alla riforma, solo uffici distaccati del Ministero dei Beni Culturali) si sono limitati a conservare e siccome un afflusso maggiore di pubblico richiede più attenzione, più impegno, più risorse, perché avere più gente dentro i musei? Fino alla soglia della riforma Franceschini, i soldi ricavati da ciascun museo andavano alle entrate generali dello stato e non al singolo museo. Il direttore di ogni museo o area archeologica, anche “superstar” (Uffizi, Colosseo, ecc.) era solo un funzionario, spesso neppure dirigente del Ministero, e la sua autonomia era pari a zero: il museo non poteva avere (sostanzialmente) alcun introito che non derivasse dai biglietti d’ingresso.

Altro che Marketing! Adesso i primi venti tra musei e aree archeologiche più importanti avranno una gestione più autonoma e con margini di discrezionalità più elevati per ogni museo. Si spera che il processo di autonomia vada avanti e si arrivi ad avere venti soggetti importanti per la valorizzazione dei nostri musei. Negli altri paesi, soprattutto quelli anglo-sassoni, il concetto di pubblico non coincide con quello di statale. Il Metropolitan Museum di New York non è gestito dal governo federale, così come gli altri musei americani (che non sono meno preziosi  dei nostri, né meno curati dei nostri) ma da trust pubblico-privati e finanziati persino da singole famiglie, che vogliono lasciare la loro impronta sociale proprio finanziando attività culturali. Hanno perciò un bilancio privatistico e ogni anno che cade in terra devono trovare i fondi e non basta, per ottenerli, declamare in un convegno quanto siano importanti i beni culturali, ma fare iniziative, convincere imprese e famiglie a dare soldi. Insomma tocca meritarseli. La fonte fondamentale per questi musei è il numero di visitatori, perciò usano la comunicazione, il marketing e le arti della persuasione di massa (se così vogliamo dire). Ecco da dove nasce il successo di musei.

Nasce da una verità lapalissiana, che però trova a casa nostra ostacoli ideologici incredibili: solo con i soldi dei privati (visitatori, imprese, famiglie) si possono rendere grandi i musei. Siccome museisiamo il paese al mondo con maggiore presenza di beni culturali (non so come mai si è sviluppata la leggenda metropolitana che abbiamo il 50 % dei beni culturali al mondo, perché in verità siamo sì i primi, ma con il 5 %) allora dovremmo avere una capacità della stessa misura nella gestione e nella valorizzazione. Dovremmo essere il paese che insegna agli altri il restauro, ma anche come rendere popolari e accoglienti i nostri musei. Siamo preda dei fantasmi che ci siamo costruiti addosso, delle corporazioni auto-referenti e della mancanza di coraggio. Dovremmo ragionare secondo un altro e più grande ordine di idee: dalla consapevolezza di avere le migliori risorse, avere anche il miglior pensiero sull’eredità cultuale. Pensiamo a Google: concentra non solo risorse, ma anche pensiero e intelligenza del mondo in misura straordinaria. Questo perché si è pensata globale sin dal suo nascere. È nata con un’ambizione senza limiti. Dobbiamo anche noi considerare che il nostro pensiero e la nostra azione siano globali, nel senso che vogliamo essere i primi al mondo nel restauro, nel display delle opere, nella costruzione anche dei ricavi economici, nell’incidenza della cultura nella vita sociale. E con un “business model” (osiamo usare questo termine) all’altezza del compito. Per farlo dobbiamo cambiare completamente il nostro approccio, la nostra cultura sui beni culturali (se il gioco di parole è permesso). Altrimenti saremo sempre lì, da un lato a lamentarci dei (pochi) fondi pubblici, del paese potenzialmente primo al mondo e, mentre il tempo, inesorabile, scorre, scoprire che Seul è più avanti di noi.

Antonio Preiti

L'Autore

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