Sogni, promesse volano... Ma poi cosa accadrà?

Gianni Rodari

FABRIZIO PARENTI A FQ: RIALTO, LA FINE DI UN SISTEMA CULTURALE

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Il modello Rialto Santambrogio, così si potrebbe chiamare un nuovo e dinamico sistema culturale che metta insieme pubblico e privato. Un modello che ricalca quello già in atto in tante capitali europee e che potrebbe andare a colmare un vuoto culturale del paese. Ma oggi quel modello rischia di essere abbattuto visto che lo spazio all’interno del ghetto romano è al centro di una lunga controversia. Sì perché lo stabile è stato sequestrato la settimana scorsa e – nonostante il dissequestro, solo parziale, avvenuto venerdì sera – per ora le attività sono bloccate.

Una vicenda che non è un fatto locale ma si inserisce in un quadro più ampio che va dall’approvazione del bilancio capitolino con relativi tagli agli investimenti nella cultura, al nuovo lacunoso decreto legge dello spettacolo che sostituisce i vecchi stabili con i teatri nazionali, con l’esclusione di una realtà storica come il teatro stabile di Genova. Fabrizio Parenti, attore e regista tra i curatori del Rialto, è alquanto indignato; per lui le politiche culturali perseguite in Italia “hanno determinato la totale dissoluzione di una serie di possibilità”. E questo è solo l’inizio.

In cosa consiste il lavoro dal Rialto?

Parenti FabrizioIl Rialto è uno spazio culturale dove le risorse che vengono dalle attività commerciali come il bar e le serate di musica vengono investite nelle attività artistiche: mostre, spettacoli, spazio prove gratuito. Si tratta di uno spazio di aggregazione lontano dalla formula del solito pub. Qui hanno provato moltissime compagnie, abbiamo avuto due spettacoli in collaborazione con il Teatro di Roma. Infatti con il direttore di quest’ultimo, Antonio Calbi, stavamo lavorando a una partnership per garantire alle produzioni del Teatro di Roma spazi prove. Insomma noi forniamo un servizio a una comunità, riempiamo un vuoto che le istituzioni non riescono a colmare.

E allora cosa è successo?

Intanto ricordo che questo spazio, in via Sant’Ambrogio, è stato dato al Rialto nel 2000- 2001 dopo un’iniziale occupazione dell’ex cinema Rialto. Quello dei primi anni duemila era un periodo di grande fermento culturale: una serie di realtà si misero insieme per creare una rete progettuale. Nel 2009 lo spazio viene sequestrato dal commissariato Trevi- Campo marzio con l’accusa di non essere un’associazione culturale ma commerciale. Nel 2014 veniamo assolti e lo spazio ci viene riassegnato ma a febbraio arriva la lettera di sfratto a noi e alle altre associazioni presenti nello stabile come, tra l’altro, Acqua bene comune e la settimana scorsa l’intervento del commissariato ci fa lasciare lo stabile (dissequestrato parzialmente venerdì scorso, ndr).

In tutto questo percorso qualche anno fa vi era stato assegnato un altro spazio

Nel 2004, per meriti culturali, con sindaco Veltroni, una delibera assegna al Rialto uno spazio a via delle Mura portuensi, l’ex autoparco dei vigili urbani senza oneri per l’amministrazione. Spazio che non abbiamo mai visto. Voglio sottolinearlo: a noi non interessa rimanere al ghetto perché capiamo le criticità del posto e i problemi di ordine pubblico, il vero problema è l’afflusso di persone che disturba i vicini. Per questo vorremmo andare nello spazio che ci è stato legittimamente affidato dove potremmo creare un polo culturale importante.

Perché si è fermata l’assegnazione?

rialtoIl problema secondo me nasce da un’indagine avviata tempo – che si sta allargando sempre di più –su un altro spazio romano, il Circolo degli artisti, ne stanno emergendo una serie di connivenze che interessano almeno quattro amministrazioni. Si era, a quanto pare, creato un meccanismo di scambio che poteva essere elettorale o economico in cambio di concessioni. E ora c’è un fuggi fuggi generale di fronte ad associazioni che invece sono serie come la nostra. Sono situazioni completamente differenti . In qualsiasi capitale europea di spazi come il nostro ne esistono a bizzeffe.

Sentite la mancanza di politiche culturali adeguate?

Certo. Il problema è creare una risposta utile ai gravissimi problemi della città. Insomma serve un progetto, una linea guida. A noi non interessa occuparci solo del singolo caso Rialto. Noi vogliamo creare un sistema culturale che metta insieme privato e pubblico. Nel momento in cui continuano a tagliare risorse economiche alla cultura chi, come noi, invece è una risorsa- e non ha mai chiesto soldi – dovrebbe essere un esempio invece di venire bastonato. Noi siamo un modello, anche di indipendenza, che dovrebbe essere preso in considerazione a livello nazionale per affrancare la cultura da una condizione miserabile.

Che rapporti avete con le altre realtà come ad esempio il Valle occupato?

Quello del Teatro Valle è un altro problema. Il Teatro di Roma, con i soldi che ha, dovrebbe gestire Argentina, India e anche il Valle? Non ha la minima possibilità. Il problema è che a Roma, e in altre città, ci sono centinaia di spazi non utilizzati. Secondo me una vera risorsa per la città sarebbe il Teatro India. Se ne potrebbe fare un centro culturale di una potenzialità incredibile.

La riforma del teatro firmata dal ministro Franceschini, ma in realtà portata avanti da Salvo Nastasi, aiuta?

teatroÈ quasi una beffa. Al posto dei vecchi teatri stabili ci sono i teatri nazionali e quelli di rilevante interesse culturale. Bene, il teatro nazionale dovrà fare una quantità di lavoro molto più ampia con gli stessi finanziamenti di prima. A parte il fatto che, come sanno tutti, i veri grandi teatri italiani sono lo stabile di Genova, il Piccolo di Milano e lo stabile di Torino. Possiamo aggiungere Roma anche perché con Antonio Calbi molto si sta smuovendo. Ma l’esclusione del teatro di Genova che ha una tradizione di grandi allestimenti e una grande scuola di teatro è scandalosa.

Come se ne esce?

Ci vuole un confronto tra istituzioni e operatori culturali, un sistema che a Milano esiste già. A Roma in questo momento c’è una grandissima creatività, nostri artisti sono molto apprezzati fuori e infatti se ne stanno andando. Ma la colpa è anche degli operatori culturali: troppo spesso ognuno coltiva l’orticello personale. Manca in questo Paese un senso di comunità che porti ad andare oltre gli interessi personali.

Laura Landolfi

L'Autore

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