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Abraham Lincoln

La sfida per l’Italia è attivare l’autostrada informatica

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La strategia digitale italiana è – nonostante il silenzio assordante che la circonda – la più grossa scommessa che il Governo italiano sta facendo sulla crescita e sull’innovazione: i documenti strategici (quello sulla crescita digitale e l’altro sulla banda ultra larga) presentati la settimana scorsa, mobilitano circa 16 miliardi di euro da oggi al 2020: 12 per l’infrastruttura e altri 4 sulla crescita della domanda e offerta di servizi che da quella banda verranno trasportati. Su 16 miliardi, 6 provengono dai fondi strutturali europei.

Attivare “l’autostrada informatica”

L’obiettivo infrastrutturale è davvero ambizioso: portare entro il 2020 la quota di popolazione italiana servita da banda ultra larga (in grado di far viaggiare 100 mega bit per secondo) da quasi zero all’85%. Ciò avrebbe l’effetto di spostare, in sette anni, il Paese da una situazione nella quale siamo al ventottesimo posto in Europa per qualità dell’autostrada informatica; ad una nella quale ci troveremmo ai primissimi posti e a superare di gran lunga il valore obiettivo – 50% della popolazione – che la stessa Europa si dà per il 2020.

autostrada informatica

Banda larga

Per riuscirci però è indispensabile che si crei la domanda e l’offerta di servizi che useranno la banda larghissima. Altrimenti ci troveremmo come ad avere una grande autostrada che non usa nessuno e che, dunque, come succede anche per le infrastrutture digitali, andrebbe lentamente in malora per difetto di manutenzione.

I rischi da evitare

A questo servono gli altri 4 miliardi: stimolare la crescita dei servizi del futuro che richiedono capacità di trasmissione così elevate (e sicure). Ed è qui che l’asino rischia di cascare.

Intanto per una questione di soldi. Per rendere utile un’infrastruttura (anzi per meglio dire per velocizzare l’utilizzazione – up take) che costa 12 miliardi, non sono sufficienti risorse tre volte più basse (a meno che non vogliamo ridurre i 12 miliardi e rendere gli obiettivi della banda ultra-larga meno ambiziosi in termini di percentuale di Comuni coperti e più in linea con le previsioni europee). Certo è vero la domanda e l’offerta più dell’infrastruttura richiede investimenti privati.

E, tuttavia, buona parte dei servizi che richiedono potenza comunicativa così forte sono associati a aree di produzione di beni pubblici; è all’utilizzo della rete (e non sulla sua disponibilità) indotta dai servizi pubblici che sono dedicati nove dei tredici obiettivi dell’agenda digitale europea; ed è su questi nove che il ritardo degli italiani è particolarmente grave.

In secondo luogo, la “crescita digitale” nella visione di Alessandra Poggiani, appare concentrata su servizi (fascicolo sanitario, casella civica per ogni cittadino, aggiornamento del patrimonio hardware) che sono, sostanzialmente, tradizionali. Non “disruttivi” dal punto di vista organizzativo (anche se molto utili se solo si arrivasse al principio che l’amministrazione pubblica non può più notificare alcunché se non all’indirizzo elettronico del cittadino che lo volesse). E che poco hanno a che fare con le trasmissioni (legate a concetti come quello di “Internet delle cose”, ma anche ad alcune applicazioni di telemedicina) che richiedono banda ultra larga.

L’innovazione deve essere cambiamento

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Digitalizzare per sviluppare le “città intelligenti”

Soprattutto, manca nel documento di crescita digitale una riflessione strategica che parta dai servizi pubblici, da una diagnosi dei problemi per area, e, dunque, da una identificazione per capire cosa le tecnologie possono fare per risolvere i problemi. Manca, ancora più importante, un’idea di innovazione come cambiamento, anzi trasformazione radicale di organizzazioni e assetti istituzionali. Senza la quale idea, le tecnologie rischiano di produrre un ulteriore irrigidimento di processi superati.

Ciò è particolarmente vero per l’area di intervento sulle “città intelligenti” che si pone in assoluta continuità con un passato recente nel quale alcune centinaia di milioni di euro sono stati distribuiti a decine di progetti senza che ci fosse una vera strategia di intervento, obiettivi da raggiungere (nonostante l’introduzione nell’agenda di un paragrafo sugli indicatori di prestazione chiave che appare tuttavia ancora da scrivere), una valutazione dei risultati.

Una strategia sulle “città intelligenti” che non parte da una valutazione di ciò che è stato fatto in passato e da una serena autocritica degli errori non è credibile. E non è una strategia.

La sensazione è che un po’ rischiamo di ripetere in materia digitale, ciò che è stato fatto in alcune città italiane quando ancora c’erano soldi pubblici che oggi, peraltro, mancano: costruiamo un faraonico centro direzionale di grattacieli al centro di Napoli; ma ci dimentichiamo di sviluppare le azioni indispensabili per potervi attrarre un numero di imprese sufficiente per poter riempire gli spazi e pagare i canoni indispensabili per assicurarne la manutenzione.

Poca conoscenza verticale degli ambiti sui quali si va ad intervenire. Forse perché l’AGID è, ancora, troppo laterale alle amministrazioni dello Stato (ma anche dei Comuni e delle Regioni) dove c’è (o dovrebbe esserci) la conoscenza – per area di servizio – che dovrebbe guidare l’identificazione della tecnologia giusta. Ma anche perché poco si utilizza l’inventiva degli innovatori che pure esistono in Italia o che potrebbero essere interessati all’Italia.

La necessità di una strategia digitale

Più utile sarebbe istituire – con una parte dei soldi – un vero e proprio fondo chiuso – finanziato dallo Stato e da operatori finanziari specializzati nella digitalizzazione dei servizi pubblici – che avrebbe selezionato e accompagnato le start up più innovative. E accompagnare tutte le azioni con un sistema di generazione della conoscenza che è fondamentale per una strategia di innovazione: identificare i problemi; avviare e finanziare la sperimentazioni di alcune soluzioni (specializzando, magari, città e regioni per area di servizio pubblico da innovare); misurare i risultati e consentire il fallimento; identificare cosa funziona e predisporre meccanismi specifici per il riuso.

La strategia digitale rimane, ancora, molto nella testa dei tecnologi. E questo ha come sua conseguenza più importante di togliergli visibilità politica. Ed, invece, a ciascuna tecnologia, a ciascuna innovazione dovrebbe essere legato un progetto di cambiamento e un miglioramento dell’esperienza quotidiana delle persone.

Francesco Grillo

L'Autore

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