Compili il suo pronostico, ci penserà il futuro!

Gianni Rodari

La nostra storia. Il caso Moro

0

Cronaca di una morte annunciata

9 maggio 1978. C’è vento a Roma, il cielo è grigio di nuvole. Alle ore 12,30 squilla il telefono a casa del professore Francesco Tritto, assistente universitario di Aldo Moro, lo statista, presidente della Dc ed ex presidente del Consiglio, sequestrato 55 giorni prima dalle Brigate Rosse. Il commando all’incrocio tra via Mario Fani e via Stresa  aveva bloccato  la Fiat 130 sulla quale viaggiava e ucciso i cinque uomini della sua scorta: Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi. Tritto risponde.  Dall’altra parte una voce giovane si presenta: “Sono il dottor Nicolai”, dice. “Lei deve comunicare alla famiglia che troveranno il corpo dell’onorevole Aldo Moro in via Caetani. Lì c’è un Renault 4 rossa. I primi numeri della targa sono N5”.

Alle 13,20 il comandante Antonio Cornacchia – nome in codice Airone 1 – mentre si trova in piazza Ippolito Nievo a Trastevere riceve una telefonata via radio dalla centrale operativa dei Carabinieri di Roma, che gli comunica la presenza di una macchina sospetta in via Caetani. E’ parcheggiata proprio a metà strada tra Piazza del Gesù, sede della Democrazia Cristiana e Botteghe Oscure, quartier generale del Partito Comunista. Gli artificieri tardano ad arrivare e Cornacchia a un certo punto decide di forzare da solo il portabagagli dell’auto usando un piede di porco. E’ lui il primo a vedere il cadavere di Aldo Moro.

Dinanzi ai suoi occhi l’epilogo di una vicenda che ha cambiato il corso della storia d’Italia. Un epilogo che era stato preannunciato dai sequestratori tre giorni prima  in un comunicato –indicato con il numero 9 – in cui scrivevano: “Concludiamo la battaglia, eseguendo la sentenza a cui Moro è stato condannato”.

Nessuna trattativa

Era la loro ultima risposta alla ferma posizione del governo, guidato da Giulio Andreotti. Una posizione, condivisa anche dai comunisti, e che era di risoluta chiusura a ogni tentativo di negoziato, caldeggiato invece  da socialisti, radicali e mondo cattolico e sollecitata dallo stesso Moro nelle sue lettere scritte alla moglie, ai colleghi di partito, Francesco Cossiga e Benigno Zaccagnini, e al Papa. Lettere nelle quali chiedeva di trattare con i suoi carcerieri.

Questa la sintesi dei fatti, intorno ai quali continuano ad aleggiare inquietanti interrogativi, forse destinati a restare per sempre senza risposta. Lo scenario che fa da sfondo alla morte di Moro resta infatti cupo e composito.

La letale apertura al Pci e il sogno del “compromesso storico”

Va innanzitutto detto che l’ uccisione di Moro segna la fine di una precisa visione politica che avrebbe dovuto cominciare a prendere forma concreta proprio nel giorno del suo sequestro. Fu una mera coincidenza che la mattina dell’agguato – era il 16 marzo 1978- Moro si stesse recando  a Montecitorio per votare la fiducia al quarto governo Andreotti, il primo esecutivo dal 1947 che avrebbe avuto l’appoggio esterno del Partito Comunista?  Sull’onda dello strappo consumato con Mosca dal leader del Pci Enrico Berlinguer e dell’idea alla quale Berlinguer stava lavorando  di “compromesso storico” come soluzione preventiva dinanzi a possibili derive istituzionali di tipo sudamericano (come il golpe di Pinochet contro Allende in Cile), Moro aveva cominciato a progettare la creazione di uno schieramento allargato ai comunisti capace di realizzare un programma di profondo risanamento e rinnovamento della società e dello Stato italiani. Un’idea,  che a quei tempi di Guerra Fredda,  certo non doveva suonare molto gradita all’Unione Sovietica e agli Stati Uniti, e tantomeno a quei poteri economici che stavano già preparando lo smantellamento del sistema statalistico.Ma questa è solo una delle tessere del complicatissimo mosaico di quegli anni.

Italia sempre più player nel Mediterraneo

Tra gli altri pezzi importanti del puzzle, non è da sottovalutare ad esempio il fatto che Moro sognasse per  l’Italia un ruolo da player nel Mediterraneo e che per questo avesse intrecciato strette e importanti relazioni con i paesi arabi, relazioni alle quali aveva lavorato intensamente tra il 1968 e il 1972 mentre ricopriva l’incarico di ministro degli Esteri. Moro era riuscito così a gestire bene  la crisi libica dopo il golpe di Muhammar Gheddafi nel 1969 e aveva siglato tra il 1973 3 il 1974, all’indomani della strage di Fiumicino messa a segno da Settembre Nero,  una sorta di accordo segreto di non belligeranza con Yasser Arafat (noto come lodo Moro) finalizzato a non esporre il paese al rischio di attentati terroristici di stampo mediorientale  in cambio di un appoggio politico all’Olp che puntava a  ottenere il riconoscimento della Comunità Economica Europea. A mediare con gli arabi era stato il colonnello dei carabinieri Stefano Giovannone, capocentro del Sid  e poi del Sismi a Beirut, al quale Moro fa riferimento anche nelle sue lettere dal carcere brigatista. E’ comprensibile quale possa essere stata la reazione all’intesa tra palestinesi e italiani da parte dell’Alleanza Atlantica.

Lo stragismo e il caso Lockheed

Ma non è tutto. Gli anni che precedettero il caso Moro furono anche  gli anni della strage di Piazza della Loggia (28 maggio del 1974) e della strage dell’Italicus ( 4 agosto del 1974), del  trattato di Osimo (1975), che sancì l’appartenenza della Zona B del Territorio Libero di Trieste alla Jugoslavia. E infine dello scandalo delle tangenti Lockheed, che subito dopo la morte del leader democristiano – era il 15 giugno del 1978- portò alla dimissioni il  presidente della Repubblica Giovanni Leone.

Teorie complottistiche

Da questo quadro composito sono nate le più disparate teorie complottistiche. Così il caso Moro è diventato un vero e proprio intrigo internazionale del quale di volta in volta sono stati protagonisti i servizi segreti di tutto il mondo, dalla Cia al Kgb, al Mossad, all’intelligence francese e inglese, ma anche la criminalità organizzata. Quel che è certo non si è mai arrivati, anche attraverso due commissioni di inchiesta parlamentare e cinque processi (quattro se si considera l’accorpamento del primo e del secondo), a nessun punto certo, con un problema: quello di rimanere disortientati dinanzi alla mole di informazioni contraddittorie.

Due libri per orientarsi

Per capirne di più senza condizionamenti favolistici, Futuro Quotidiano consiglia la lettura di due saggi appena pubblicati sullo statista democristiano, entrambi presentati nel giorno del quarantesimo anniversario dell’uccisione. Uno è “Aldo Moro e l’intelligence. Il senso dello stato e le responsabilità del potere” (Rubettino)  a cura di Mario Caligiuri professore associato di Pedagogia della comunicazione all’Università della Calabria, dove dirige dal 2008 il primo Master in Intelligence, e di Comunicazione pubblica alla Sapienza di Roma, e “Moro. L’inchiesta senza finale” di Fabio Lavagna e Vladimiro Satta.   L’altro è “Moro. L’inchiesta senza finale” (Edup) di Fabio Lavagno e Vladimiro Satta.

 “Aldo Moro e l’Intelligence”

E’ un’opera chiave che ci fornisce un ritratto dello statista pugliese, che va là dei 55 giorni della sua tragica fine e ci consente di contestualizzare la sua visione e la sua strategia politica. Scopriamo così quanto sia stato determinante il ruolo che ebbe Moro nella fine del governo Tambroni (che nasce con l’appoggio del Msi)  nell’apertura della Dc prima ai socialisti e poi ai comunisti, nella gestione della vicenda del Piano Solo (il tentativo di colpo di stato del 1964) e della crisi dell’intelligence, nella costruzione di rapporti privilegiati con il mondo arabo, e durante la strategia della tensione. Questo interessantimo volume ci svela anche un altro aspetto di Moro, un aspetto abbastanza inedito: il giusto rilievo, che aveva capito si dovesse dare all’intelligence per tutelare la sicurezza dello stato, la necessità di utilizzarne le informazioni in difesa dell’interesse pubblico.

 

“Moro. L’inchiesta senza finale”

Il libro è una sorta di unicum nel vasto panormama della pubblicistica su Moro che si pone proprio l’obiettivo di  liberarne la vicenda storica e politica  da ogni interpretazione dietrologica, prendendo in considerazione, per quanto riguarda le motivazioni del sequestro e dell’uccisione e la ferma risposta dello stato e della Dc ai brigatisti, solo prove dotate di ampi riscontri, senza farsi affascinare da suggestioni soggettive  o peggio ancora da fantasie. Le conclusioni alle quali si arriva è che l’agguato di via Fani e l’omicidio di Moro rappresentarono il momento clou della strategia delle Br, il loro momento più alto di propaganda armata.

Il libro “Aldo Moro e l’intelligence” (Rubbettino)a cura di Mario Caligiuri,  è stato presentato il 9 maggio alla Camera dei Deputati, nella sala dedicata allo statista democristiano. All’evento sono intervenuti oanche Vincenzo Scotti, presidente della Link Campus University, Paolo Messa, direttore del Centro Studi Americani, il sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri e il professor Paolo Gheda, docente all’Università della Valle d’Aosta.

 

 

 

Il libro “Moro. L’inchiesta senza finale” (Edup) di Vladimiro Satta e Fabio Lavagno, il primo storico ed ex curatore della documentazione della Commissione Stragi, il secondo parlamentare, unica voce dissonante all’interno della Commissione parlamentare che ha svolto l’ultima inchiesta sulla vicenda Moro (2014-2017), è stato presentato il 9 maggio insieme agli autori dalla giornalista Daniela Brancati presso lo spazio Wegil di Roma.

 

 

L'Autore

Lascia un commento