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Rainer Maria Rilke

Laura Puppato a FQ: Renzi sia chiaro su Art. 18, il lavoro è il ripristino della persona

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La pax “del tortellino” in casa Pd è durata giusto qualche giorno. Dopo l’annuncio di Matteo Renzi di accelerare sul Jobs Act e sul superamento dell’articolo 18 è riesplosa la questione politica che più divide  all’interno del Pd stesso  il partito “del governo” dal partito “laburista”: quella sul mercato del lavoro accompagnata da quella sulla giustizia. Incontri, cene e strategie delle minoranze sono in continua evoluzione nell’attesa della direzione convocata il 29 settembre che secondo Renzi dovrà chiudere con un voto il dibattito sul provvedimento giudicato fondamentale per trattare la flessibilità con l’Ue. Di tutto questo FUTURO QUOTIDIANO ne ha discusso con Laura Puppato, senatrice del Partito democratico, in passato sostenitrice della linea di Pippo Civati, che si è ritagliata una posizione e una interlocuzione personale sulla vicenda.

Senatrice, che cosa sta avvenendo nel Pd sull’articolo 18?

Devono essere chiariti una serie di punti. Il rischio concreto è che si entri ancora di più in fibrillazione per alcuni preconcetti, per una visione che da una parte e dall’altra rischia di essere troppo parziale, incapace di dare l’idea del tipo di riforma che vorremmo attuare. Occorre fissare dei paletti che possano garantire che non si vada semplicemente ad eliminare una garanzia come l’articolo 18, nonostante sia limitato a una sola percentuale di lavoratori.

Tocca a Renzi fissarli questi paletti?

È opportuno che il premier su questo sia molto esplicito e molto organico. Chiarisca, cioè, che in realtà ciò che si intende fare è mettere su una copertura universale e impedire che possano esistere discriminazioni di qualsiasi natura, anche sindacale. A mio avviso vanno equilibrate e compensate le varie proposte: è ovvio che non può esserci solo una riduzione delle garanzie. Questo deve fare un partito che si richiama al laburismo: affermare come il lavoro sia non solo al centro delle politiche ma possa rappresentare il ripristino della dignità di una persona.

Su questo non tutti la pensano così. Ad esempio la sinistra sindacale definisce il Jobs Act “uno scalpo offerto da Renzi ai falchi della Ue”.

La critica forte di Renzi ai sindacati parte da un’accusa: la negligenza di aver dimenticato più delle metà dei lavoratori, di averli lasciati in una condizione di insufficienza. Non accettiamo la logica dello scalpo, non è questo il senso di una riforma così importante. Cerchiamo di guardare con serietà, invece, a un riequilibrio nei rapporti pubblico-privati e nei rapporti di impresa. È vero che ciascuna delle componenti ha contribuito a produrre un paese inadeguato e ha messo il lavoro sotto il limite di guardia. Per questo adesso occorre fare un patto che preveda delle compensazioni: vogliamo ridimensionare determinate garanzie? Ad esempio il demansionamento nella Pa? Dall’altro lato devo prevedere le garanzie universali, l’incrocio unico di domanda e offerta. A mio avviso, poi, il vero punto di approdo è arrivare a ciò che avvenuto in Germania, dove nelle aziende con oltre 50 dipendenti, all’interno del Cda, c’è un rappresentante dei lavoratori. Un fatto ben più rilevante di un articolo 18, perché qui i lavoratori sono coinvolti a pieno titolo.

Andrà martedì alla riunione “di guerra” della minoranze del Pd?

Aborrisco, e non da oggi, che ci sia un settarismo interno. È ora di smetterla con questo sistema: chiunque, ciascuno di noi, deve poter esprimere la propria opinione apertamente. Io l’ho fatto spiegando a Renzi le preoccupazioni di cui stiamo parlando. Credo che l’unico male di questo partito è che ci sia un sottorecinto nel quale si muovono le correnti che, anche quando hanno le loro ragioni, agendo in questo modo perdono credibilità.

Dall’altro punto di vista, però, c’è chi all’interno delle minoranze obietta i metodi di Renzi, a partire dalla minaccia di un decreto sulla questione Jobs Act.

Chi, come me, ha vent’anni di esperienza di impresa sa bene come le discussioni ci debbano essere, poi però occorre fare sintesi e ciò è compito di Renzi. Mi viene in mente l’esempio della riforma costituzionale dove il premier sosteneva duramente alcune cose che poi invece sono state modificate. È chiaro che non abbiamo molto tempo: dovrà chiudere la questione lavoro in un “tempo determinato”. Dopodiché, quando i nodi riguardano riforme di grande livello, mi viene da chiedere però che si lascino da parte le differenze e si cerchi di guardare a un obiettivo comune: che i 22 milioni di lavoratori italiani diventino 30.

Eppure dalla sinistra Pd e dai sindacati sono arrivate accuse pesanti: “riforme di destra”, “Renzi come la Thatcher”.

Non mi risulta che sia una politica liberista quella di andare a ridurre il costo del lavoro per aumentare la capacità di offerta da parte delle imprese o che sia liberista pretendere una Pubblica amministrazione più efficiente. Tutto questo è una politica di centrosinistra. Quello che vogliamo è non solo rendere il lavoratore compartecipe ma riequilibrare le condizioni dei lavoratori, mettere tutti sullo stesso piano.

Come mai allora per Bersani ci sono i “marziani” al governo?

Se parliamo di stile Bersani ha diritto di pensare che il modo di atteggiarsi e di comunicare di Renzi sia inopportuno. Bersani però sbaglia a pensare che il mondo del lavoro non sia cambiato dal 1980.

Sa bene, però, che anche Pippo Civati, che lei ha sostenuto, la pensa grossomodo così.

Ho ritenuto che Civati con Renzi potesse governare il Paese. Mi sono illusa che potesse essere di aiuto per unificare una certa parte della sinistra formando l’arcipelago degli innovatori. Non ho accettato di stare in una corrente quando ho capito che non c’era questa volontà di lavorare insieme. In politica non si può anteporre ciò al vantaggio generale.

Ci crede a questa segreteria unitaria?

La mia idea di segreteria è che siano composte da soggetti competenti non da rappresentanti di quote. Preferisco non pensarci che si facciano col manuale Cencelli: aggiungiamo un bersaniano, togliamo un renziano, senza dimenticare un lettiano.

Chiudiamo con la giustizia. Si parla di riforma, anche qui la minoranza del Pd rumoreggia e nel giro di qualche giorno vengono indagati candidati renziani e il padre del premier. Che significa tutto questo?

Partiamo dal fatto che la riforma della giustizia deve rendersi intellegibile a tutti, cosa che ancora non è. Detto ciò, siamo il 160° paese al mondo per la qualità della giustizia. Iniziamo da qui per dire che siamo uno Stato dove le aziende non possono investire perché non viene garantito un principio fondamentale: che i procedimenti non siano così lunghi. È impossibile, insomma, che qualcuno possa pensare che non sia indispensabile una riforma della giustizia. Sarà importante capire come si farà la riforma: se responsabilità diretta o no dei giudici e così via. Tutte queste sono discussioni positive, in corso, al cui interno devono essere analizzati i pro e i contro.

Poi arrivano le inchieste.

E il dubbio che non sia tutto un caso viene. Che fare allora? Se il fondamento è l’autonomia delle due sfere l’unica cosa è far funzionare la giustizia senza che vi siano discrezionalità che possano in qualche modo portare a una giustizia a orologeria ma nemmeno a una politica a orologeria. A noi i dubbi restano ma anche qua non possiamo farci vincere dalle paure né dalla rabbia.

Antonio Rapisarda

L'Autore

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