Sogni, promesse volano... Ma poi cosa accadrà?

Gianni Rodari

Il dolore “congelato” nelle pallide luci dell’Essex

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Freddo e asciutto, nonostante sia ambientato in una località di mare, Manchester by the sea, l’ultimo film di Kenneth Lonergan, è un dramma sobrio e realistico, spesso affidato ai silenzi e ai gesti spenti del suo protagonista, Lee Chandler, interpretato con ottima padronanza e complessità da Casey Affleck, che ha vinto con merito l’oscar 2017 come miglior attore protagonista.

Il film racconta di un trauma, ma lo fa “aggirando” la rappresentazione diretta di quest’ultimo, concentrandosi non tanto sull’avvenimento in se, che è mostrato di sfuggita, quanto sulle sue conseguenze, sui segni indelebili che Lee Chandler trascina con se, assieme alla sua esistenza in direzioni che non hanno più contorni né confini, ma assumono la fisionomia di ritualità senza contenuto, finalizzate soltanto a tenerlo occupato, per evitargli di pensare.

Il suo sguardo distante, inerte e grigio sembra essere in assoluto contrasto con la sua iper-attività che poi, infatti, subisce inevitabilmente dei crolli, in cui subentrano frustrazione e rabbia, soprattutto se assecondate dall’alcol.
Dopo un’abile introduzione, in cui il regista fa intravvedere la mancanza di vitalità dell’uomo e la sua indifferenza verso tutto ciò che lo circonda, inizia la seconda parte del film, che vede il ritorno di Lee Candler nella sua città natale, Manchester by the sea, nell’Essex, in Massachusetts. Una telefonata che annuncia la morte del fratello lo riporta vicino agli “insopportabili” luoghi d’origine.

E’ da qui in poi che il presente viene intervallato a sprazzi dal passato. La regia li alterna, prediligendo immagini statiche e colorazioni fredde, come se le scene fossero scolpite nel ghiaccio. In tale scenario trovano spazio con grande efficacia però le interpretazioni degli attori. Questo fa si che lo spettatore sia tutt’altro che distante da ciò che viene riprodotto sulla scena. L’empatia è costruita a poco a poco dal regista che sfrutta il potenziale degli attori, facendoli muovere con credibilità e realismo sul palco di “ghiaccio” che ha costruito per loro.

Ciò che risalta subito all’occhio, in particolare, è la differenza di reazione tra Lee Chandler e tutti gli altri personaggi nell’affrontare la perdita e le formalità doverose del funerale. L’uomo ne è suo malgrado incaricato e cerca di sbrigarle al più presto, come se desiderasse scappare, un po’ come farebbe una persona estranea, tenuta ad occuparsi del funerale di un conoscente o di uno sconosciuto. Una chiusura ermetica la sua, che lascia intravedere pochi spiragli, come la luce seminascosta del pallido sole di Manchester.

Da questo confronto emerge subito che l’uomo è diverso, come segnato da una maledizione sconosciuta, da una scheggia di ghiaccio conficcata nella sua anima, ( un po’ come in “la Regina delle nevi” di Andersen), impossibile da rimuovere ed in precario equilibrio, al punto che la più flebile vibrazione potrebbe farla penetrare ancora più a fondo, fino a disintegrare la parte dell’anima, rimasta miracolosamente intatta.
La neve di Manchester che ne ricopre le case e le coste, immortalata dall’algida e bella fotografia, alimenta queste suggestioni, come se Lee Chandler fosse davvero in una prigione di ghiaccio, che si delinea a poco a poco attorno al protagonista, nel corso del film, come una pioggia di neve tenue ma costante che all’improvviso si trasforma in una morsa “artica”, fatta di sensi di colpa, angosce, e una perdita incolmabile, che non potrà essere mai espressa a parole.

Illuminante il tentativo di dialogo tra Lee Chandler e l’ex moglie Randi (Michelle Williams). Nessuno dei due riesce a dire qualcosa riguardo alla tragedia che si è abbattuta su di loro, ma entrambi capiscono e soffrono. Sanno che non è possibile parlarne , perché sarebbe troppo doloroso per entrambi e tentennano, strascicando in una conversazione impossibile.

La musica classica che fa da sottofondo al film, in alcune scene privi di dialoghi, da’ a queste un’efficace patina marmorea, che sottolinea l’alienazione e l’ inerzia del protagonista dinnanzi allo scorrere del tempo e della vita. Fulminante la scena dell’incendio, che paradossalmente è l’unica in cui appare una macchia di colore caldo, che però è un fuoco distruttivo, mortifero piuttosto che una fonte di calore, di luce, o di rinascita.

Uno dei pregi della sceneggiatura (vincitrice dell’oscar 2017) è il suo realismo, la sua essenzialità e la mancanza di fronzoli e orpelli. Sono molti i silenzi e sono taglienti ed efficaci quanto i dialoghi, come rasoi dalla lama gelata, ma non manca nemmeno un calore tacito che si sprigiona fra le righe tra i personaggi. La costruzione di questi ultimi è articolata e senza sbavature. Centrale è soprattutto il rapporto tra Lee Chandler e Patrick, il figlio del fratello morto (un bravo Lucas Hedges). Un punto di svolta fondamentale della trama è infatti quello in cui lo zio (Lee) scopre di essere stato nominato tutore del nipote, dal fratello. Questo lo costringe in qualche modo a fargli da padre e a sforzarsi di entrare in empatia con qualcuno, nonostante la sua evidente incapacità di relazionarsi con gli altri. Un’eredità pesante e frustrante che mette alle corde la sua sopportazione e spalanca le porte dei ricordi involontari. D’altro canto, però, lo costringe a fare delle scelte, organizzarsi, riportarsi forzatamente almeno al margine dei binari. Perché, in fondo, nonostante quello che gli è successo Lee Chandler è forte, come il nipote che ha appena perso il padre. I due con tentativi dal risultato alterno si sostengono l’un l’altro. La speranza è difficile, ma c’è, si percepisce, è in un sorriso del ragazzo durante la pesca sopra la barca del padre, quasi un dejavu strappato ai ricordi buoni del passato, di quando Patrick, bambino, aveva preso un pesce enorme con la sua lenza sopra la stessa imbarcazione. La vicenda è realistica. Il finale, aperto. Il trauma non puo’ essere dimenticato, la soluzione ai problemi non è univoca. Tutto è incerto come una barca in mezzo al mare, la stessa che viene mostrata nelle scene d’ apertura e di chiusura del film, probabilmente lontano da Manchester, però, covo glaciale e nostalgico di memorie infrante.

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