Che ognuno avrà il futuro che si conquisterà.

Gianni Rodari

Perché la scuola uccide la creatività

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SCUOLA:STUDENTI IN CLASSE E GENITORI FUORI DALLA SCUOLA.ATT.PEREGO - SCUOLA ELEMENTARE DI VIA NOE - Fotografo: FOTOGRAMMA

Non esiste una definizione precisa della creatività, diceva il matematico ed epistemologo G. Israel, interrogandosi sulla possibilità o meno di insegnare la creatività nella scuola. Potremmo però avvicinarci a capire la creatività, se riusciamo a vederla come la capacità di ciascuno di noi di “produrre qualcosa di inatteso”, di “trovare soluzioni inaspettate ad un problema”. Se volessimo poi rispondere alla domanda dello studioso circa la possibilità o meno di insegnarla a scuola, dovremmo sforzarci di pensare a una modalità di fare scuola così diversa dall’attuale, dove non si desse nulla per scontato, dove tutto il sapere fosse costruito dal basso grazie a un “dialogo aperto” tra l’insegnante e i suoi allievi, dove fosse abolita tutta la routine di definizioni a priori, di somministrazioni di questionari, di verifiche e valutazioni preconfezionate dell’apprendimento. E proprio in riferimento alla valutazione – che rappresenta la nota dolente e il segmento più frustrante del lavoro dei docenti – dovremmo lavorare con grande convinzione al fine di consentire un doppio salto mortale: dalla “valutazione dell’apprendimento” passare ad una auspicabile “valutazione per l’apprendimento”. Non sarebbe cosa di poco conto. L’alunno da soggetto passivo di valutazione diverrebbe soggetto attivo e quindi ben cosciente dei suoi punti di forza (consapevole cioè di cosa gli manca veramente in termini di conoscenze e abilità, ai fini dell’acquisizione di una determinata competenza) e conquisterebbe – come primo e ultimo obiettivo della scuola – la sempre agognata “autonomia nello studio”.

“We don’t need no education – we don’t need no tought control. Non abbiamo bisogno di educazione – non abbiamo bisogno del controllo del pensiero”. Ve la ricordate? “Another brick in the wall” dei Pink Floyd. Pink sogna una rivoluzione tra i banchi di scuola. La sua rivoluzione va intesa come una lotta per rivendicare la propria individualità e al contempo come una feroce critica contro gli insegnanti. Naturalmente bisogna contestualizzare. Sono gli anni ’50 gli anni dell’infanzia di Pink, un tempo in cui gli insegnanti mettevano in ridicolo le eccezionalità dell’alunno per modellargli la mente in un modo funzionale al sistema. Il contesto di riferimento di “Another brick in the wall” non è più il nostro attuale contesto scolastico. Ne è passata di acqua sotto i ponti. C’è stata nel frattempo una rivoluzione copernicana in campo pedagogico. Sono passati i Decreti Delegati del ’74, è passata con essi la democratizzazione della scuola italiana (nel bene e nel male), il focus pedagogico dal concetto di insegnamento al concetto di apprendimento, più tardi è arrivato il concetto di “autonomia scolastica”, e via via la scuola dell’integrazione, attualmente la scuola dell’inclusione con i cosiddetti Bes, i bisogni educativi speciali, un concetto pedagogico all’avanguardia per la sua raffinatezza ideologica, psicologica e morale, dove la persona dell’alunno è ormai percepita come una individualità bio-psico-sociale. Eppure dopo tutte queste trasformazioni, dopo tutte queste esplicite dichiarazioni della specificità dell’alunno come individualità unica e irripetibile (da sostenere a livello didattico con strategie educative miranti al pieno sviluppo armonico di tutte le sue potenzialità), non si è riusciti ancora a mettere al centro dell’azione didattica il potenziamento della sua creatività. Che cosa ostacola questo processo? Forse che la creatività fa paura al sistema? Bisogna mantenere tutti inquadrati per poterli dirigere più facilmente, come denunciavano i Pink Floyd?

E se l’istituzione scuola mortificasse veramente la creatività, nonostante tutte le dichiarazioni di intenti circa la autonomia e la crescita della persona? Se nell’ombra puntasse – nonostante tutte le buone intenzioni – ad un apprendimento passivo, ripetitivo e nozionistico (in base ad un retro-pensiero cialtrone, accomodante e pigro che la caratterizza nel profondo del suo dna), invece che all’auspicata “autonomia nello studio”? Cioè se a parole manifestasse una cosa e nei fatti ne facesse un’altra? La creatività si riconosce subito. Il pensiero creativo si riconosce per l’audacia intellettuale del soggetto che aspira ad esplorare la realtà da angolazioni e prospettive sempre diverse e inaspettate. La mancanza di quella audacia rende rigido il pensare, costringe l’elaborazione mentale il un letto di Procuste, con l’inevitabile risultato della morte del pensiero stesso. Ma cosa ci ha abituati sin dall’infanzia a percorrere sempre gli stessi sentieri, perdendo di vista spaccati di realtà che ci rimarranno sconosciuti per una intera esistenza?

Il nemico numero uno della creatività è la paura. Quello numero due l’errore. Uno dei primi imprinting negativi ricevuti nella prima infanzia e che ci accompagnerà fino alla morte condizionandoci l’intera esistenza è la paura dell’errore – la paura dell’errore interiorizzata come uno spauracchio inibitore dell’iniziativa ad agire e pensare liberamente. Il blocco del flusso naturale dell’energia psichica, dovuto a quella paura sotterranea che inibisce e frena, finisce per rendere la nostra mente sterile e depressa, mentre la libera esplorazione dei mondi, interno ed esterno, fantastico e reale, l’alimenterebbe di energia positiva. Possiamo quindi arguire che il migliore amico della creatività è la libertà – il contrario della paura. Winnicot – parlando della ricerca del sé (Gioco e Realtà) – afferma che soltanto nel giocoil bambino o l’adulto sono “liberi di essere creativi”. Cosa vorrà dire? Che dove c’è uno scopo, un obiettivo da raggiungere, non ci sarà mai nessuna possibilità che si inneschi un processo creativo? E ancora. Che se nelle nostre occupazioni quotidiane per raggiungere un obiettivo dobbiamo mettere in gioco tutta la nostra determinazione, fare appello a tutte le nostre risorse, tirare fuori il meglio di noi stessi, combattere e fronteggiare ansie e fantasmi interni pronti a boicottare il nostro operato ad ogni piè sospinto, vorrà dire che in tutto ciò non ci sarà mai un barlume di creatività? Forse si.

Vivere in modo creativo è tutt’altra cosa. Percepire di essere vivi in ogni cosa che si fa, di essere se stessi, accettare la realtà esterna senza mortificare il proprio impulso personale, aumenta come per magia il sentimento di essere vivi e questo nuovo sentire è la perfetta cartina al tornasole del nostro star vivendo in modo crativo. Ci sono due modi di cucinare le salsicce, secondo Winnicot. Uno è seguire pedissequamente ricette preesistenti e i consigli di un cuoco esperto; l’altro è quello di prendere delle salsicce e di cucinarle a caso. Due esperienze molto differenti. Quando ci si conforma alle regole, afferma Winnicot “non si impara nulla dall’esperienza, se non un rafforzamento della sensazione di dipendenza dall’autorità”; quando si agisce in modo originale “ci si sente più reali e ci si stupisce di ciò che ci passa per la mente”. Ma come si combina tutto questo con la scuola? Io personalmente qualche esperienza di questo tipo l’ho fatta con miei alunni e devo dire che è stata anche risolutiva di problematiche inerenti alla relazione didattica. Mi trovavo in Germania nella piena e difficilissima gestione di un scambio culturale Comenius. Il progetto didattico comune alle due scuole,la mia e quella tedesca, della quale io ero ospite insieme alla mia classe, consisteva nel redigere una “Guida turistica della città di Erfurt per giovani”, da pubblicare in lingua italiana, mentre a loro volta i tedeschi ne avrebbero redatta una in lingua tedesca per la città di Pozzuoli. Le difficoltà – già esistenti per differenze socio-culturali e per l’adattamento dei miei alunni all’ambiente tedesco – aumentarono di gran lunga quando uno dei miei studenti “terribili” incominciò a rifiutarsi di collaborare, rimanendo passivamente a zavorrare il mio lavoro e quello della classe. Mi ero accorto per caso, osservando una sera una sua personale performance nell’ostello della gioventù di cui eravamo ospiti, che gli piaceva la musica e aspirava a fare il cantante rock. Gli proposi così il compito di monitorare la scena musicale di Erfurt, che sarebbe potuta diventare un capitolo della guida da pubblicare. Gli lessi subito un guizzo di eccitazione negli occhi. Poi si raffreddò subito iniziando a trovare un mare di difficoltà (la lingua, i mezzi pubblici, le cartine). Ma io non mi lasciai scoraggiare, rilanciai la sfida e me ne assunsi la piena responsabilità. Ne parlai col preside della scuola tedesca e gli trovammo un giovane partner che lo aiutasse nel compito, anche lui appassionato di musica. Fu quella una svolta nella vita di Massimiliano.

Nicola Corrado

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