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Plague: il social network che funziona a “contagio”

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I social network sono stati fino ad oggi una lunga catena di contenuti condivisi da conoscenti, amici e parenti. Infatti un profilo non ha senso d’esistere, non può accedere a nessun contenuto, se non è legato agli altri, perché è su questa rete di contatti che il social network vive e prospera. Così funzionano Facebook, Twitter e Instagram, ma non Plague.

Un nuovo paradigma di condivisione

Scorrere una vetrina di articoli, video, foto o immagini, condivise dai propri collegamenti è sempre stata l’unica strada battuta dai classici social network. Ma Plague si basa su tutta un’altra idea di condivisione, “Plague, an essentially different way to spread information”, dice l’App in apertura, ed è questo che promette: rivoluzionare il modo in cui vengono condivisi i contenuti. Ma come?

Come funziona

plague networkPlague si ispira al sistema di trasmissione delle epidemie, funziona essenzialmente a “contagio”. Gli utenti pubblicano un’immagine o un testo attraverso l’App, e il post viene trasmesso ai dieci iscritti più vicini geograficamente. Questi poi a loro volta devono decidere se vale la pena condividerlo, semplicemente scorrendo sullo schermo verso l’alto, e “contagiare” così altre dieci persone. Se la risposta è invece “non ne vale la pena” allora il contenuto muore, o almeno ha sette giorni di tempo per scatenare un’epidemia.

Addio follower e following

Niente pagine da seguire, niente amici. Solo una staffetta di contenuti che possono sbattere contro un ostacolo e fermarsi o proseguire, basta un gesto per uccidere il virus, ne basta un altro per dare il via all’infezione. Gli ideatori lituani della startup “Deep Sea Marketing” sono convinti che sia un passo avanti nella condivisione di informazioni perché con il loro sistema sono solo gli iscritti a decidere cosa vale la pena di essere visto.

Come si presenta

Un’interfaccia minimal all’ennesima potenza, bianca e azzurra, rende lo scorrimento dei contenuti e l’utilizzo semplice e immediato. C’è la possibilità di scrivere un post tramite un’icona in alto a destra, oppure di dare un’occhiata alle statistiche, che sono il vero cuore di Plague. Attraverso questa sezione si può avere un riscontro sulla diffusione dei propri contenuti, si può visualizzare la mappa, vedere il punto di partenza, il percorso e l’arrivo, quanto e come ha contaminato il territorio, o la percentuale di utenti che hanno visto e diffuso a loro volta.

Come un videogioco

Sembra un videogioco anche se non lo è. L’idea è però proprio quella, spingere a “giocare”, a vedere se il tuo contenuto può andare lontano dalla tua città, dalla tua regione e Paese. Ogni utente ha un indice di infezione che aumenta quando partecipano e che determina anche quante persone saranno infettate con le loro (e proprie) condivisioni. Ma esiste anche un elemento incontrollabile e del tutto casuale. È come lanciare un messaggio digitale in una bottiglia che non è detto verrà scorta nell’oceano. La maggior parte finisce per scomparire, ma quelli veramente popolari travalicheranno qualsiasi frontiera. Inquietante vero?

Superficiale?

Forse anche superficiale. Perché se il sistema può funzionare bene, trasformandosi in un reale nuovo strumento, grazie al suo meccanismo di base del tutto nuovo, di contro rischia di crollare sul fronte contenuti. Sono proprio questi il più macroscopico problema che ha il nuovo social network. Per ora scorrono sulla schermata di Plague solo immagini copiate da Facebook, citazioni motivazionali, foto di cibo o di città e tramonti.

Senza identità

Plague snNon ha ancora trovato un suo modo d’essere, una sua identità. E tante sono le perplessità legate a questa mancanza d’anima: gli utenti restano estranei, non è possibile avviare una discussione, se non all’interno dei messaggi pubblicati, motivo per cui sono stati costretti ad implementare anche la condivisione sugli altri social network. I commenti alle discussioni poi non durano, proprio come i “virus” creati e diffusi dagli utenti. Non è possibile dare priorità alle persone che condividono cose interessanti, non si possono vedere i post di un utente se si clicca sul suo profilo, niente resta abbastanza a lungo da rimanere. E il rischio di ritrovarsi davanti una lunga sfilza di contenuti banali, o persino gli stessi, è molto alto, soprattutto perché non è possibile rintracciare o seguire le persone che hanno fatto colpo. Ma c’è anche un altro pericolo in agguato.

Diffusione di materiali illegali

Un sistema virale come questo, che condivide informazioni quasi slegate dall’utente che le promuove per primo, potrebbe promuovere inavvertitamente, o non, contenuti inappropriati e pornografia. Passerebbero tranquillamente sottobanco, sempre se qualcuno li condivide. L’ideatore, Zudin, era preoccupato proprio che potesse essere utilizzato per questo genere di diffusioni in forma anonima, ma la comunità l’ha smentito, gestendosi tranquillamente da sé come un’“auto-polizia”, pronta alla censura, se necessario. A questo livello ancora embrionale una supervisione sembra non servire e il controllo della diffusione attraverso gli occhi dei membri non è una missione impossibile. Poi chi lo sa.

Plague sì, Plague no

Il successo è stato immediato. Il diritto di poter decidere cosa abbattere e cosa condividere, il potere di far decadere un contenuto che non piace, ha attirato e incuriosito tantissimi utenti sempre alla ricerca di una nuova possibilità di interazione. In due mesi sono stati oltre 150 mila i download e sono 38 mila gli utenti attivi ogni giorno. Certo, per ora in confronto ai giganteschi mostri di social network in circolazione non è ancora nulla, ma cresce costantemente. Il tempo dirà se Plague riuscirà davvero a diffondersi come un virus.

Ilaria Pasqua

L'Autore

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