Che ognuno avrà il futuro che si conquisterà.

Gianni Rodari

Quirinale. Una scelta al di là della tara delle passioni

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Allo stesso modo di come è accaduto in tanti altri casi di rilievo pubblico, si confondono, anche nel caso dell’elezione del Presidente della Repubblica, aspetti e giudizi che appartengono categorialmente a piani di discorso diverso. E così accade che quando si domanda (ad es. in un famoso talk show televisivo che di queste confusioni è ricco) il nome del futuro coinquilino del Quirinale, le persone rispondono o col nome che loro aggrada, o con quello che ritengono sia il più probabile o con quello che sarebbero disposti a votare. E così confondono tra piani diversi del discorso, un po’ come è avvenuto a proposito della celebre frase di papa Francesco sul pugno che “si deve aspettare” chi insulti sua madre: è chiaro che con questa espressione non si adduce certo una giustificazione o – peggio – un imperativo morale, ma si enuncia piuttosto una sorta di legge empirico-sociologica. Un cosa è infatti dire che se ci si butta dalla finestra ci si sfracella al suolo (legge empirica), un’altra è suggerire o dire che è buono e giusto buttarsi dalle finestre (legge o valutazione di tipo etico).

La scelta del nuovo inquilino del Quirinale

chi salirà al quirinale?Analogamente, una cosa è esprimere il proprio presidente ideale, quello che piacerebbe fosse eletto; un’altra cosa è prevedere chi sarà eletto, anche se tale nome risultasse personalmente ripugnante; ancora un’altra è esprimere la propria disponibilità ad accettare (e quindi a votare nel caso si fosse nelle condizioni di farlo) un dato nome. Nel primo caso siamo nel mondo dei sogni, dell’ottativo del cuore, di ciò che risponde al nostro ideale e che sarebbe possibile nel migliore dei mondi possibili, se non ci si dovesse confrontare con gli attriti e le lordure della politica praticata. Nel secondo caso ci poniamo sul piano dell’analisi delle forze in campo, dei dati di fatto, delle esigenze contrapposte e quindi dobbiamo far uso dell’intelligenza delle cose, in una quanto più possibile asettica e spassionata valutazione della realtà della politica, facendo la tara alle passioni e alle sozzure di cui essa è intrisa. Nel terzo caso, infine, ci poniamo il problema di raccordare al meglio le nostre aspettative (appartenenti al primo livello di discorso) con la realtà di fatto (appartenente al secondo) e quindi cerchiamo di risolvere la difficile equazione consistente nella scelta del nome che è, ad un tempo, di fatto possibile e quanto meno lontano dalle nostre aspirazioni ideal-utopiche. Ed è quest’ultimo il piano in cui propriamente si deve porre la politica se non vuole rinchiudersi o nel velleitarismo inefficace o nella semplice e pura contemplazione dei fatti, che accadrebbero indipendentemente e indifferenti alla nostra volontà.

La “sapienza” che spetterebbe alle forze politiche

È questo lo sforzo che deve essere richiesto a tutte le forze politiche che vogliono realmente incidere sulle elezioni del presidente e che non vogliono rassegnarsi al nome che potrebbe scaturire dall’accordo a due tra Renzi e Berlusconi. Ma questo impegno a distinguere i diversi piani del discorso, prima tratteggiati, deve in generale poter caratterizzare l’attività di una forza politica che voglia coniugare il reale cambiamento con l’efficacia progettuale, la coltivazione di nobili ideali con loro concreta implementazione. Ed è proprio di questa “sapienza” che è sinora mancato il movimento diretto da Grillo; ma è una sapienza che non può scaturire da votazioni plebiscitarie, appunto perché queste il più delle volte tendono a mischiare questi diversi piani del discorso. Sarebbe il compito di un accorto e pensante gruppo dirigente, che nei partiti e nelle organizzazioni che funzionano dovrebbe avere proprio questo difficile compito di elaborazione e mediazione. Proprio quello che sembra oggi mancare a gran parte dei partiti sulla scena, sballottati tra leaderismo autocentrato e plebiscitarismo acefalo.

Francesco Coniglione

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