La miglior cosa del futuro è che arriva un giorno alla volta.

Abraham Lincoln

“RESPINGIMENTI” DI WALTER CREMONTE, STORIE DI DANNATI SUI BARCONI

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Cosa possiamo dire di un naufragio/ più della stessa parola: naufragio./ Forse aggiungere: lasciare le piane dorate/ le vie del cielo e le care stelle/ l’olivo, il fico, il mandorlo, il limone/ tutto confuso e perduto in un vortice/ d’acqua e di terra. Moltiplica questo/ per duecentottantatré vite umane/ e poi per uno, uno per uno.

Le vittime questa volta però sono novecento e si assommano alle ormai migliaia di corpi in mare che la cronaca ci sottopone agli occhi, alle orecchie, alla nostra coscienza.

respingimentiLa poesia Naufragio è di Walter Cremonte, un fine letterato e poeta di Perugia che ha raccolto pochi ma significativi versi in un libricino “Respingimenti” (ed. LietoColle, 2011). L’avvenimento cui si riferisce e da cui prese lo spunto, il naufragio di Portopalo avvenuto nel 1996 e chiamato il naufragio fantasma perché per molto tempo non se ne parlò. Ci fu solo una notizia sul “Manifesto” con un articolo di Dino Frisullo (di cui due parole sono riprese fra virgolette nella poesia Portopalo) e alcuni anni dopo una inchiesta su “Repubblica”. C’era interesse a non far sapere; i barconi dei dannati della terra e del mare erano solo agli inizi; ma nel fondo del mare era rimasta questa stiva piena di morti, migranti provenienti soprattutto dal Bangladesh nel periodo di Natale: A Natale non succede mai niente /tutti lì ad aspettare che passi/ e anche sul fondo del mare/ attendono, “ignoti e insepolti”. Ma forse qualcosa riaffiora/ forse fiorisce. Nelle acque del mare affiorò una carta di identità con il nome di un ragazzo del Bangladesh di diciassette anni, morto, chiuso nel fondo del mare. “Mi colpì molto – dice Cremonte – si parlava dei sans papiers, ovvero degli emigranti, dei clandestini senza documenti, e qui invece si era trovato un papier, ma senza la persona. Ecco che nacque questa mia piccola costruzione sull’esilio, sul naufragio. Ci sentiamo sempre inerti di fronte a una tragedia del genere. E se non possiamo concretamente fare qualcosa, possiamo però fare arrivare un messaggio sempre a più persone, per sensibilizzarle, fin quanto ci è possibile; per far comprendere ciò che accade su quei barconi pieni di speranza oltre che di morte. Cremonte utilizza i suoi versi. Si è chiesto più volte se fosse meglio tacere davanti a tale tragedia, se scrivere poesie fosse quasi un lusso inutile e perfino irritante davanti a una realtà insopportabile di ingiustizia e sofferenza.

Il libricino Respingimenti non dà risposte, indicazioni o soluzioni; sono domande di fronte a ciò che è inspiegabile. Inizia con la poesia Esuli e una citazione di Virgilio, dalla prima Ecloga, “carmina nulla canam”, tradotta con “non canterò nessuna canzone”; è la voce desolata del personaggio Melibeo, vero archetipo dell’esule, del migrante, costretto a lasciare la sua terra confiscatagli a favore dei veterani delle guerre imperiali. Se pensiamo che questi personaggi della poesia pastorale sono pastori-poeti, che vivono nell’idillio, nella finzione poetica di una vita beata di lavori tranquilli e di amori e di poesia, quella frase del pastore Melibeo può anche voler dire “rinuncio alla poesia” di fronte alla catastrofe del suo destino di esule. “Che spazio, che funzione può ancora avere la poesia? forse è impotente, non salva la vita probabilmente, ma aiuta a capire. E le cose, comunque, vanno dette, c’è l’esigenza di esprimersi”. E non è vero che la poesia sia solo un gioire, un danzare, qui non c’è fuoco che scalda/ solo fuoco che brucia/ stanze gelate incendiate. “Cerco di rappresentare il naufragio, la morte per acqua di tanti disperati – spiega Cremonte – e ho cercato di essere la voce di uno di quei disperati: se annego non sto a discutere su quanti immigrati possiamo accogliere, su quanti di questi potrebbero diventare criminali, e se hanno il diritto o no di mangiare quello che gli pare e pregare come vogliono il loro dio, se ne hanno uno. Se annego dico: Mi manca la terra sotto i piedi, mi manca l’aria. E chiedo aiuto.”

Il poeta perugino ha chiamato a raccolta l’aiuto dei classici, Virgilio, Dante, Primo Levi (che è citato – lungo è il viaggio/ vuoti gli occhi, vuote le mani/ senza mai nulla sperare/ considerate se questo/ anche questo/ è un uomo-), Kafka e il poeta tedesco Enzensberger che ha scritto della fine del Titanic.

Ma la chiave di questa sua ricerca è nella Ginestra di Leopardi: “lì troviamo le parole energiche, coraggiose, polemiche, che preludono a una possibile e necessaria solidarietà tra gli esseri umani, respingimentisulla base della consapevolezza – al di là, o forse meglio al di qua di ogni falsa coscienza, di ogni mitologia consolatoria – del nostro comune destino di fragilità e dolore: dalla coscienza e dall’accettazione coraggiosa e senza infingimenti della universale condizione di souffrance (ma c’è sempre chi paga di più, vittima dell’oppressione e dello sfruttamento) alla rifondazione di un patto sociale di mutuo soccorso (il “vero amor”).

Leopardi ci mostra una concreta possibile realizzazione della terza, la più difficile e negletta, delle parole della rivoluzione: fraternità”. E nelle poesie Cremonte cerca di spiegare, cerca di convincere, cerca di sensibilizzare: ora che vengono/ lasciali venire/ non sono cattivi/ non più di noi./ Li porta la fame/la rabbia e la mitezza/ e poi loro ci provano: /credo che erediteranno la terra. Si domanda che cosa significa rimpatriare se uno una patria/ proprio non ce l’ha. E si interroga su chi stabilisce le frontiere qui è tutto mare/ dov’è che si diventa/ fuorilegge. “Soltanto se riconosciamo la nostra fragilità troviamo il coraggio di darci una mano, di esserci l’un l’altro compagno, in uno scambio che non nasce da un astratto e inaccessibile “dover essere”, ma dall’essere nudo e crudo, materialissimo, come noi siamo”.

Dobbiamo accogliere i migranti, che rischiano sempre la loro vita, Di qua di là di su di giù/ li batte il mare/ e non c’è pace mai/ se il mare tace/ e un po’ meno di male/ li assale/ si apprestano alla prossima rovina.

Dobbiamo dargli la possibilità di approdare alla vita di nuovo /(stessi stenti, stessa miseria/ stessa ostinata fermezza/ a provare). Perché respingerli? perché far precedere il riandare dallo sguardo dove le acque si chiudono?

La nostra risposta istituzionale è priva di pietà; mare nostrum aveva lo scopo di salvare le vite, e adesso è stato tolto superato in una idea di difesa della fortezza Europa, ed ecco il risultato, ancora più morti. Bisogna ritornare a una politica di aiuto, di soccorso e accoglienza”. Sotto una coltre d’acqua / il fuoco le fiamme/ il ghiaccio e il ferro/ questo è l’inferno./ Non ci sono ricordi/ né sogni/ l’assassinio è compiuto/ e non c’è altro..

Stefania Miccolis

L'Autore

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