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Gianni Rodari

La sharing economy ormai è un must. Non crea posti di lavoro, ma…

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ECONOMYL’innovazione viaggia veloce, anche nelle parole. E capita sempre più spesso di trovare di traverso qualche espressione inglese per indicare un fenomeno nascente nel campo dell’economia e del mondo imprenditoriale. But business is business! Adesso, per esempio, va di moda la ‘sharing economy’. Con questo termine si indicano varie forme di attività in cui la condivisone di informazioni mette in grado i singoli individui, le aziende, le associazioni no-profit e le pubbliche amministrazioni di operare meglio e con una riduzione dei costi mettendo in comune alcuni dati che consentono il riutilizzo o la condivisione di alcuni beni e servizi. L’assunto di partenza è che quando una certa informazione su dei beni è condivisa il valore di questi stessi beni tende ad aumentare sia per gli individui, che per le aziende, che per la comunità tutta intera. In sintesi è l’economia della condivisione, fattore, quest’ultimo, da considerare sicuramente un valore specialmente in tempi di ‘vacche magre’, al netto ovviamente di tutto ciò che gli gira intorno. Intanto questa nuova forma di economia raccoglie sempre più consensi, fino a quello recentissimo di Milena Gabanelli che in una delle ultime puntate di Report ha dedicato al fenomeno un servizio dai toni a dir poco entusiasti. Ma alla fine, si sa ed è più forte di noi, siamo sempre alla ricerca della formula risolvi-tutto e se la scarsità di risorse è un fattore imperante, la condivisione diventa un must, magari da supportare con qualche app a portata di mano sui nostri smartphone. Intanto qualcuno ha cominciato a misurare le ricadute effettive della sharing economy sulla economia reale con risultati che non fanno gridare esattamente al miracolo. Perché, fanno notare dal Wall Street Journal, per i prestatori d’opera in sharing più che di guadagno si può parlare di arrotondamento e senza alcuna garanzia a livello occupazionale.

DUE CASI DI START UP

A tutti sarà capitato di pensare che l’automobile che possediamo, normalmente, sta per la maggior parte del tempo ferma sotto casa, nel parcheggio dell’ufficio o in garage. È insomma una ‘immobilizzazione’ per la quale però siamo da sempre stati disposti ad investire ingenti risorse sia per l’acquisto che per la sua manutenzione. Un tempo dicevamo “costa, ma è una comodità”. Con la sharing economy, invece, potremmo pagare molto meno il servizio che la nostra automobile ci offre, limitandoci a spendere solo per la parte legata al suo effettivo utilizzo e condividendo con altri tutti gli altri costi di manutenzione del mezzo, assicurazione e tasse comprese. E senza rinunciare alla comodità. In questi ultimi giorni sono saliti alle cronache due casi di start-up della sharing economy, quello di Uber e quello di Airbnb. Uber consente tramite la sua app dedicata di usufruire in alcune città di un servizio di trasporto con autista professionista. Nella sua versione UberPop, questa piattaforma consente a chiunque possieda una macchina di offrirsi come autista fai-da-te. In questa ultima versione il servizio è stato duramente criticato dai taxisti di Milano, intravedendo in esso una sorta di concorrenza sleale. Per l’utente-autista il vantaggio principale di questo servizio sta nel fatto di poter mettere a disposizione la propria macchina e di poter ‘arrontadare’ i propri guadagni. Recentemente il Tribunale di Milano ha disposto il blocco della app di UberPop in tutta Italia e l’azienda ha già dichiarato che farà ricorso in appello. Airbnb invece è un portale online che mette in contatto persone in ricerca di un alloggio o di una camera per brevi periodi con persone che dispongono di uno spazio extra da affittare e funziona generalmente tra privati. Questa piattaforma di sharing fino ad ora non è stata percepita dagli albergatori come ‘concorrenza non gradita’ anche perché secondo alcuni avrebbe contribuito a segmentare ulteriormente il mercato senza nuocere alla clientela tradizionale degli alberghi. Recentemente però il Codacons ha messo in guardia l’azienda avvertendola e invitandola a vigilare sulla presenza nella piattaforma di ‘annunci ingannevoli’.

SECONDO IL TIME QUESTO TIPO DI ECONOMIA POTREBBE ARRIVARE A MUOVERE 335 MLD DI DOLLARI

Verso queste nuove forme di business e di condivisione i toni usati, come dicevamo, sono solitamente molto enfatici. Il Time considera che molte di queste forme di sharing economy nascenti possano davvero cambiare il mondo. Secondo una classifica stilata da questo giornale, le dieci migliori di esse potrebbero muovere a breve un giro d’affari di circa 335 miliardi di dollari. Tra queste sono comprese Uber e Airbnb. Meno entusiasmo troviamo nei loro confronti se leggiamo il Wall Street Journal. Il quadro che ne viene tracciato è impetuoso, arrivando a descriverle sotto forma di “nuovo feudalesimo con moderni servi della gleba, salari bassi e diritti del lavoratore che di fatto non esistono”. Le critiche più forti sono proprio verso il fenomeno UberPop e contro quella schiera di tassisti fai-da-te che porta con se. Un meccanismo di ‘liberalizzazzione’ di mercato senza che il legislatore abbia mai preso nessuna decisione in questo senso. Si capisce ovviamente che le forme di ‘mercato regolamentato’ stiane strette agli innovatori più incalliti. C’è poi la questione non secondaria dei posti di lavoro perché Uber avrebbe già dipinto un quadro alquanto roseo delle ricadute occupazionali che il servizio genererebbe là dove implimentato, tirando fuori un dato di circa 20.000 nuovi conducenti al mese che fiorirebbero a livello globale grazie alla sua piattaforma e che nelle maggiori città americane arriverebbero a guadagnare anche 17 dollari l’ora. Al Wall Street Journal questi dati non sono andati giù ed alcuni dei suoi giornalisti si sono dati da fare per verificare quanto dichiarato, in termini di numeri, dall’azienda. La sentenza del Wall Street Journal è ben sintetizzata in queste parole “near minimum wage”, il che vuol dire che in realtà i numeri effettivi di Uber sarebbero molto più bassi di quanto dichiarato. Ne è nato un grande dibattito sul valore sociale di servizi come questo. E una certezza, a leggere il Wall Street Journal, non creano effettivi nuovo posti di lavoro ma semmai la semplice possibilità di guadagni aggiuntivi che possono servire per ‘arrotondare’.

MA SECONDO ALCUNI E’ IL TRIONFO DELL’AUSTERITY

Qualcuno, WSJ compreso, penserà che sia il trionfo dell’austerity. In parte potrebbe essere così. Soltanto che queste forme di sharing non possono essere lette solo da un punto di vista di PIL e di ECONOMYproduzione di ricchezza economica. Esistono piattaforme tramite le quali è possibile prenotare, pagando, una cena a casa di qualcuno che vuole mettere a disposizione di un pubblico più ampio la propria passione per la cucina. Non ci si diventerà certo ricchi, ma si può ampliare il proprie giro di conoscenze e condividere con loro il talento nascosto. Allora se il paradigma è questo occorre trovare un altro modo per affrontare a livello di dibattito questi fenomeni emergenti ed un ripensamento globale della loro mission anche da parte di queste start-up miliardarie. Insomma, a dimostrare l’utilità delle loro piattaforme servono più storie che numeri, più fatti che statistiche. Converrebbe loro puntare tutto sul lato relazionale della cosa, perché sui numeri si rimane facilmente ‘appesi’ alle critiche di qualche quotidiano economico prima o poi. Le storie, date retta, sono sicuramente meno controverse. E converrebbe provare ad inserirle in quel grande dibattito del ‘less is more’ che è in corso da qualche anno a livello internazionale, per cui il profitto non può essere l’unico elemento da valorizzare all’interno di una attività di impresa. Tanto più in contesti di condivisone come quelli appena descritti. Occorrerebbe insomma un vero e proprio cambio di paradigma, perché i pericoli della globalizzazione dell’industria non si possono battere solo con la globalizzazione dei servizi. Altrimenti il rischio del mondo 2.0, a livello di distribuzione della ricchezza, è quello di essere una replica perfetta del mondo 1.0, quello dell’industria manifatturiera,  in cui abbiamo vissuto almeno fino alla fine del millennio precedente. Se l’approccio resta questo,  anche con Internet la ricchezza di sposterebbe semplicemente da un gruppo di potere all’altro, senza alcune effetto di democratizzazione nell’accesso ad essa.

MA I VECCHI PARADIGMI AZIENDALI IN ITALIA SONO DURI A MORIRE

Guardando alla vicenda del blocco di UberPop da parte del Tribunale di Milano e alla conseguente reazione dell’azienda di cui ci arrivano continuamente aggiornamenti si ha l’impressione che anche questi nuovi servizi di sharing ragionino secondo il vecchio paradigma della contrapposizione sindacale tra ‘datori di capitale’ e datori di lavoro. Per altro gli autisti di Uber non sono nemmeno dipendenti dell’azienda, per cui il loro numero crescente non può essere nemmeno computato nelle statistiche dei livelli occupazionali generati da questa nuova forma di economia condivisa. Proseguendo su questa linea non si farà altro che avvalorare ulteriormente le teorie degli scettici del web 2.0, secondo cui Internet non creerebbe nessuna forma utile di redistribuzione della ricchezza e sarebbe per ciò un puro strumento di marketing per i centri di poteri già esistenti. Il salto da fare sta tutto nelle parole di Joe Stiglitz, già premio Nobel per l’economia 2001 ed oggi apprezzato consigliere di Hillary Clinton nella sua corsa alla Casa Bianca. Secondo il noto economista è necessario sempre tenere presente il quadro macroeconomico e su di esso innestare le scelte di politica economica. A questo livello, secondo Stiglitz, la politica dovrà: depotenziare la ‘leva finanziaria’, impedendo fenomeni per cui le grandi multinazionali reinvestono nei propri titoli in borsa invece che utilizzare tali risorse nella formazione del personale e nel miglioramento delle condizioni di lavoro; introdurre forme progressive di tassazione dei redditi, riducendo gradualmente le imposte sul lavoro; cambiare rotta rispetto ai trattati di libero scambio, quelli che Stiglitz definisce, “trattati di scambio guidato, perché fatti su misura per servire gli interessi delle grosse multinazionali”. Il punto allora è capire come si collocano i colossi della sharing economy rispetto a questo quadro macroeconomico. Finché l’orizzonte sarà quello del profitto alla ‘vecchia maniera’, non ci sarà ‘economia condivisa’ che possa tenere. Adesso è davvero il momento di cominciare a lavorare per una progressiva riduzione delle diseguaglianze. La politica potrà fare, si spera, la sua parte. Ma anche le imprese sono chiamate ad aprire una riflessione al loro interno in questo senso. Per primi dovrebbero farlo questi big player della sharing economy, la cui classificazione dovrebbe coincidere anche con la loro effettiva missione. Ed è questa la più grande sfida che dovranno affrontare se non vorranno limitarsi ad essere rinchiuse in una povera, quanto inutile, classificazione.

Marco Bennici

L'Autore

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