Il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta.

Paul Valéry

Tra l’indifferenza e lo scetticismo, così l’Italia divenne razzista

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E’ una brutta storia quella che Franco Cuomo, scrittore e giornalista scomparso nel 2007, ci racconta ne “I dieci”, il libro da poco ripubblicato dall’editore Bonanno. Una storia che inizia la mattina del 15 luglio del 1938, quando gli italiani appresero all’improvviso  di essere ariani, di appartenere a una razza superiore che non doveva lasciarsi imbastardire dalla contaminazioni, dai matrimoni misti, dai rapporti di simpatia troppo stretti con le altre razze, in particolare con gli ebrei e i popoli  sottomessi delle colonie africane. Tutte queste novità erano illustrate nel Manifesto della razza riportato quel giorno in prima pagina sul Giornale d’Italia. La reazione non fu di particolare turbamento, ma neanche di entusiastica esaltazione. Prevalse l’indifferenza. E, nonostante qualche blanda manifestazione di compassione o di dissenso, tutti finirono per accettare l’inaccettabile:  frequentare ristoranti per soli ariani, fare compere nei negozi preclusi agli ebrei, mandare i propri figli nelle scuole dalle quali erano stati scacciati gli israeliti.  Con poche rare eccezioni. Eccezioni, che rappresentano un altro capitolo di quegli anni tragici, di cui darà testimonianza l’elenco dei “giusti italiani”, i cui nomi sono scolpiti a  Gerusalemme sul Muro dell’Onore. Un elenco che Cuomo riporta in appendice al volume, insieme al censimento dei razzisti italiani, agli organigrammi dell’ufficio e del tribunale della razza, alle banche preposte alla gestione dei beni sottratti agli ebrei, alla lista dei conventi cattolici che diedero asilo ai  perseguitati. Un’ampia documentazione che era rimasta inedita,  avvolta nell’ombra come i nomi di coloro  che d’intesa con il regime avevano elaborato e avallato la sintesi dottrinaria del razzismo fascista contenuta nel Manifesto, che fu preambolo e fondamento delle leggi razziali approvate nei mesi successivi: Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Donaggio, Leone Franzi, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco ed Edoardo Zavattari.  E’ proprio Cuomo, per la prima volta, con il suo saggio scritto nel 2005, ad accendere i riflettori su di loro.  A chiedersi chi erano e che fine avessero fatto e, soprattutto, perché la storia ne avesse ignorato  tanto a lungo  le responsabilità.

I loro nomi, scrive Cuomo, “sembrano non dire niente a nessuno, ma  sarebbe ingiusto seppellirli sotto un velo di silenzio come vorrebbe una certa tendenza all’oblio su alcuni dei più tragici e indimenticabili (nel senso lessicale del termine: da non potersi dimenticare) eventi del ventennio fascista”.  Nel sottoscrivere il Manifesto della Razza Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Donaggio, Leone Franzi, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco ed Edoardo Zavattari si resero colpevoli delle deportazioni senza ritorno nei lager nazisti di ottomila cittadini italiani, tra cui settecento bambini.  Non occorrono prove e testimonianze, bastano le loro firme consapevoli, apposte a un documento dagli scopi evidenti, chiarissimi, palesi. Ma per questo nessuno di loro pagò mai alcun prezzo, per aver legato il proprio nome a un documento così ripugnante.  Nessuno chiese mai loro conto di niente, neanche dopo la caduta del fascismo. Solo Cipriani venne arrestato a Milano nel giugno del 1945, ma venne subito scarcerato per “non luogo a procedere”. Nessuno di loro dovette cambiare identità o fuggire.  Nessuno di loro venne rimosso dalle cattedre universitarie di cui erano titolari (tolte invece in molti casi agli ebrei esiliati: pensate all’esodo di Enrico Fermi, Bruno Pontecorvo, Emilio Segrè), cattedre che al contrario essi mantennero fino all’ultimo per essere poi celebrati per i loro incomprensibili meriti anche nella toponomastica urbana e scolastica.  E’ intorno a questo mistero che ruota il libro di Cuomo, che non solo  fornisce prove certe del ruolo teorico e  operativo ricoperto dagli scienziati razzisti, prove sui loro incontri a Berlino con Himmler, Hess ed altri carnefici del Reich, delle visite ai campi di sterminio, delle alte cariche ricoperte da alcuni di loro nell’ufficio della razza.  Ma allarga anche a macchia d’olio la sua inchiesta. E attraverso gli organigrammi del tribunale della razza e degli enti per la liquidazione dei beni tolti agli ebrei, che pubblica per la prima volta, arriva a identificarne i vertici, scoprendo che a gestirli erano state personalità che poi  si erano riciclate con tutti gli onori nella neonata Repubblica. “Personalità”, di cui svela i nomi, nomi che spesso sono sorprendenti, e di cui denuncia con coraggio le responsabilità rintracciando i loro stessi scritti, ricostruendone le carriere e le zelanti manifestazioni di adesione ai piani del regime. E non è tutto: il libro si sofferma anche a spiegare i patetici sforzi di tanti intellettuali che sui giornali dell’epoca cercarono di dimostrare la presunta originalità del razzismo italiano, tanto decantata da Mussolini, che ne sosteneva la primogenitura rispetto a quello tedesco, analizzando il  modo in cui si fusero in un unico disegno di morte le fumisterie scientifiche o filosofiche dei razzisti “biologici” e dei “nazionalrazzisti”, degli “esoterici” e degli “spiritualisti”.   La semina di morte dei dieci scienziati e di tutti coloro che si erano accodati al loro carro, diede velocemente i suoi frutti. Fu un crescendo. C’erano trentotto campi di concentramento in funzione nell’Italia controllata dai fascisti repubblichini e dai tedeschi alla fine del ’43.  Erano luoghi d’attesa – campi “provinciali”, nei quali radunare i prigionieri da deportare in Germania, dove impianti “appositamente attrezzati” sarebbero stati pronti ad accoglierli. Della sorte cui andavano incontro i prigionieri erano tutti al corrente.

La favola bella del razzismo italiano così umano, così diverso da quello tedesco, così alieno dal favorire il disegno omicida nazista, era finita da un pezzo. Il primo grande treno della morte partì dalla stazione Tiburtina di Roma il 18 ottobre 1943, due giorni dopo la retata nel ghetto, alla quale avevano preso parte una trentina di funzionari e agenti della questura italiana.  Altri treni stipati di prigionieri partirono in quello scorcio di anno da Milano, Verona, Bologna e Firenze, diretti quasi tutti ad Auschwitz-Birkenau, dove le attrezzature erano al maggiore livello di efficienza, sia per le tecnologie adottate che per il numero e la capienza dei locali detti “docce”, dove la morte per gas veniva inflitta. E i “dieci”, dov’erano i “dieci” in quelle notti?  Dormivano tranquilli nei loro letti.

 

 

 

 

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