La mutilazione per cui la vita perdette quello che non ebbe mai,
il futuro, rende la vita più semplice,
ma anche tanto priva di senso.

Italo Svevo

Una rilettura di Henry James e del suo tormentato rapporto con gli Stati Uniti

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Per più di cento anni, lo scrittore Henry James è stato al centro dell’agenda nazionalista dei nascenti studi statunitensi in quanto americano espatriato in Gran Bretagna e come tale è considerato un modello negativo di anti-americano o, all’opposto, come americano ideale che grazie alla distanza dalla madrepatria riesce a guadagnare un punto di vista cosmopolita. Tatiana Petrovich Njegosh nel saggio “Il buon americano. Scrittura e identità nazionale in Henry James” (Ombre Corte edizioni) ripercorre la lunga storia critica dello scrittore muovendosi tra una pluralità di fonti primarie e dimostra la centralità dell’idea di nazione e il complesso intreccio tra identità nazionale, genere e razza nelle opere, nella vita, nella canonizzazione e ricanonizzazione di James. Se l’espatrio, l’adesione apparentemente entusiasta al Vecchio Mondo e la rinuncia alla cittadinanza americana hanno a lungo orientato il giudizio critico sulla sua opera e sulla sua figura, Petrovich Njegosh ribalta la prospettiva interpretativa attraverso la lente degli studi post-coloniali e mette al centro dell’attenzione la relazione tormentata tra James e gli Stati Uniti d’America.
In quest’ottica anche il legame dello scrittore con la Gran Bretagna si rivela ambivalente, ma soprattutto non esclusivo. E mentre l’Italia diventa nel tempo esempio di modernità complessa, alternativa a quella statunitense, James assume il ruolo del “buon americano”, l’americano che nonostante l’espatrio mantiene l’identità delle origini. Il saggio di Petrovic Njegosh cerca appunto di capire di quale identità e di quali origini si stia parlando.

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