Il futuro entra in noi, per trasformarsi in noi,
molto prima che accada.

Rainer Maria Rilke

Andrea Pazienza, l’universo (vivo) della grande stagione del fumetto

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Il fumetto è morto, il fumetto è vivo nel genio di un’eredità espressiva irraggiungibile, quella di Andrea Pazienza. Lui non viene dimenticato e poi riscoperto, alla stregua di Francis Scott Fitzgerald. Il naso di Zanardi, un fendente tra i due millenni, ne ha sancito la continuità con la bohème italiana del XXI secolo, di cui Pazienza fu precursore. O piuttosto, è il contrario. Scrive Jorge Luis Borges nel saggio “Kafka e i suoi precursori”, tratto da Altre inquisizioni: «Il fatto si è che ogni scrittore crea i suoi precursori. La sua opera modifica la nostra concezione del passato, come modificherà il futuro. In questa correlazione non ha alcuna importanza l’identità o la pluralità degli uomini». Dunque, l’universo ai pennarelli di Pazienza si dilata dalle due dimensioni dei fogli di cartoncino sui quali lui lo creava ai volumi architettonici scanditi dai portici bolognesi ed al tempo che attraversavano ed attraverseranno gli studenti emarginati e fuori sede.

Il segno tangibile nell’aldiquà

zanardi-andrea pazienzaC’è l’impronta di una mano di Andrea Pazienza sul vetro della mansarda dove lui concepì e realizzò gran parte della sua epopea di pennarelli, in via Daunia, a San Severo, Foggia. Anche i laici hanno delle reliquie. Ma qui si tratta di una cosa molto più semplice. Il ricordo amoroso dell’amicizia trova il feticismo dell’affetto in una traccia fisica strappata alla morte. Se non c’è nessun aldilà, resta un segno tangibile nell’aldiquà. Neologismo beffardo che a Paz sarebbe piaciuto. Quell’impronta l’ha lasciata lì da oltre un quarto di secolo senza cancellarla Giuliana, la mamma di Andrea, ma non appartiene solamente a lei. È la traccia di un mito collettivo oltre che esclusivo. Sulla mansarda di via Daunia si agitano altri fantasmi insieme a quelli di Pentothal, Zanardi, Enrico Fiabeschi ed Asdrubale. Ve ne sono di più graffianti, nella crudeltà di un’ironia tutta adolescenziale che non conosceva il moralismo bigotto, il senso della misura e, soprattutto, l’orrore sociologico chiamato “politicamente corretto”.

Lassù conveniva un’umanità minorenne di provincia che ruotava intorno ad Andrea come le correnti d’aria che formano il vortice di un tornado. I ragazzi americani si costruivano una palafitta tra gli alberi dei giardini sul retro. I coetanei inurbati da condominio italiano borghese avevano la mansarda quale covo di una devianza da salotto buono.

Il ruolo della provincia

Sulla mansarda di Andrea si tenevano sedute spiritiche ai danni di ingenui raccolti per strada. Preferibilmente sul Viale della Villa, il corso dello struscio sanseverese, dove le generazioni si sono avvicendate fino alla dispersione della gioventù nella movida notturna che tracima in tutte le strade.

Funzionava così. La pattuglia di ricognizione guidata da Andrea usciva al crepuscolo in cerca di candidati. Nella mansarda, Michele, il Pazienza junior, apparecchiava la scenografia degna di una produzione horror della Universal o della Hammer. La pattuglia pescava il pollo. Si cominciava una discussione sui fantasmi, in crescendo apprensivo, sfidando l’incredulità. I morti ritornavano, non sotto forma di zombi in lattice e succo di tamarindo, bensì di ectoplasmi. Montaggio in parallelo: sulla mansarda, un altro si paludava di lenzuolo e maschera di gomma con fattezze di teschio, comprata a New York durante un viaggio rotariano. La pattuglia tornava con il pollo. Si iniziava la seduta spiritica. Il medium lo interpretava uno che poi ha fatto l’attore. Il pollo all’inizio nicchiava e sorrideva, fiutando l’inganno. Ma quando Michele spingeva dall’esterno le ante di una finestra che si apriva di botto verso l’interno, accendeva un flash stroboscopico e sullo sfondo si parava il travestito da spettro e… be’, era Spielberg, Lucas e Stephen King senza il bisogno di un megabudget hollywoodiano. Il pollo ululava di paura e se ne scappava. Gli altri restavano a condividere con Andrea un’ilarità che si prolungava poi nel salone di casa Pazienza, quando l’episodio veniva rievocato e rigirato e ripetuto quasi fosse un’opera d’arte seriale.

Senza questo retaggio convulso della provincia irredimibile, non vi sarebbero state tante sedute spiritiche con le quali l’intelligenza sarcastica voleva prendersi una rivincita su quello che Marx definì Lumpenproletariat, proletariato straccione, irrecuperabile alla rivoluzione e condannato ad un ribellismo infruttuoso, sfociato nella criminalità dei protagonisti di Berlin Alexanderplatz, di Alfred Doblin. Nel contempo, lungo quelle vie maltenute e percorse da motorette di scippatori con la marmitta sfondata per fare più rumore, Paz attinse il linguaggio dei suoi dropouts

Nei ricordi ci sono anche gli odori. Quello delle madeleines spedisce Proust alla ricerca del tempo perduto.

La “maledizione” di vivere in tempi interessanti

andrea pazienzaDel resto, Andrea operava sì da genio solitario per eredità genetica del padre Enrico, acquerellista ineffabile che non cercò gloria, tuttavia calato in un clima e in un periodo da cui attingere spunti e suggestioni. Gli si avverò sulla pelle la maledizione cinese di vivere in tempi interessanti. Prima di lui, insieme a lui e dopo di lui, altri hanno alimentato «la grande stagione del fumetto d’autore, tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli ‘80» come la de­finì Goffredo Fofi nel corso di un convegno su Tex a S. Marco in Lamis, non distante dalla San Severo di Pazienza. Solo Paz, però, possedeva carisma e presenza fisica, la bel­lezza che ne corredava il talento e lo candidava a non lasciarsi ingabbiare dalle tendenze.

Andrea era troppo giovane per il ‘68 e già maggiorenne nel ‘77. Crebbe nutrendosi di letteratura e di cinema, non di playstation, come i fratelli minori e i nipotini. Dai quadri ai fumetti cer­cava i parametri di uno spessore impalpabile, scomparso nell’attuale inciviltà dell’imagine. La sostanza dietro il look. Dimensione perduta finanche nella letteratura dei più anziani, che inseguono un presunto gusto giovanile in realtà confezionato a tavolino per rincorrere il sogno impossibile di rialfabetizzare schiere predisposte dalla mutazione strutturale del XXI secolo solo alla lingua dell’infotainment, l’informazione spettacolo, la melassa elettronica. Nulla di più lontano dalle tavole di Andrea, che non aveva bisogno di supporti multimediali per far confluire nei suoi fumetti suggestioni e citazioni. Gli bastava la cultura, shackerata dai vortici ormonali che l’adolescenza scatenava nei ragazzi del passato prossimo. Dall’art déco a Proust (accostamento fatto nell’82 da un coetaneo che scriveva di Pazienza sulla rivista di Oreste Del Buono L’Eternauta) con certe spudorate confessioni personali che divengono lirismo, dal tratto selvaggio del fumetto Trase al Raymond Radiguet di Le Diable au corps, dalle avanguardie storiche (Breton, Picasso, i dadaisti) a Joyce che reinventa sulla pagina l’argot e i fondali delle proprie origini (San Severo come Dublino, San Menaio come la spiaggia di Sandymount), dalla pop art e abitatori del crepuscolo, biazzanott, masticatori di notte si dice a Bologna, disegnati con reminiscenze di Edward Hopper, agli universi disperati e metropolitani targati Raymond Chandler.

Quanta costernazione dimostra Andrea sotto le spoglie di Pentothal nell’ultima tavola della sua prima storia, dove si rammarica di essere tagliato fuori da Bologna in stato di assedio per i moti del ’77, controinformata da Radio Alice. Eppure, erano fatti contingenti. Qualcuno di quella stirpe adesso è passato da tutt’altra parte. Mentre il caleidoscopio di Andrea, la sua cultura eclettica e viscerale, andava oltre. Tanto oltre che rimane oggi.

Enzo Verrengia

L'Autore

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