Il futuro entra in noi, per trasformarsi in noi,
molto prima che accada.

Rainer Maria Rilke

Arte, poesia e religione: il fiore del multiculturalismo al Caffè Greco

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dsc_0072-version-2I Caffè letterari hanno caratterizzato l’attività intellettuale di molte città europee, soprattutto nella seconda metà del XIX secolo. Davanti alle tazzine fumanti di caffè si sono intrecciate discussioni filosofiche e artistiche, sono nati manifesti politici e letterari, sono stati organizzati complotti, tanto che “non si potrebbe scrivere una pagina di storia né letteraria né artistica dell’Ottocento senza citare il nome di un Caffè” (P. Bargellini). In occasione della giornata mondiale della poesia, il 21 marzo scorso, siamo tornari a rivivere questa magica atmosfera d’altri tempi al Caffè Greco di Via Condotti, il più antico e famoso Caffè letterario di Roma. Luogo prestigioso e insostituibile regno di scambio culturale, che immerge i visitatori nelle sue sale dai toni fra il rosso e l’avana. L’enfasi di condivisione tra diversi talenti, si avvale della collaborazione con l’Associazione internazionale dei Critici Letterari, ong affiliata all’Unesco che ha sede istituzionale a Parigi. Il poeta Angelo Sagnelli ha favorito l’organizzazione di questo singolare evento, offrendo ai presenti un “locus amoenus” per dedicarsi a vivere intensamente la bellezza. Partendo dalla sua fresca e matura sensibilità artistica, ci ha introdotto al senso del sublime. Sagnelli ha invocato la metafora dei “petali rossi che già sfioriscono al calar della sera”. Il dono sincero, puro e genuino di una rosa lascia emozioni indefinibili nel cuore di una donna, per questo la poesia è paragonabile più al “profumo della rosa” che al fiore in sé. La vita umana forse è tutta qui; ci si prepara per andare oltre, l’amore è il raggio di un’eterna luce: l’unico viale verso l’infinito. La forza incontenibile del verso, simile a un torrente in piena, è accompagnata dalla ricerca tecnica dello stile, come sostiene Neria De Giovanni, presidente dell’Associazione internazionale dei Critici Letterai, che invita a seguire “la sottile fragranza delle rose” che non conosce dogane o barriere e ci unisce, in quanto tasselli di un mosaico colossale. Sandrino Aquilani, sindaco, poeta e scrittore, ha regalato al circolo culturale una significativa citazione di John Kennedy: “quando il potere conduce l’uomo verso l’arroganza, la poesia gli ricorda i suoi limiti”. Sono parole dure e ricche di verità, poiché rievocano la vanità del potere in tutte le sue forme e seduzioni, apparentemente più grande di ogni impero, baluardo e sogno cieco di molti, che inaspettatamente è spazzato via dalla semplicità delle piccole cose in cui si apre la porta dell’eternità. Molto interessante è la riflessione proposta da Luca Filipponi, presidente del Festival Art di Spoleto, che evidenzia lo stretto rapporto fra arte e comunicazione. Vincolo di cui necessita più che mai il ventunesimo secolo, epoca di particolari sperimentazioni artistiche e letterarie. È un nostro dovere intellettuale, sociale e morale impegnarci in un processo di “giustizia culturale”, che consenta la rivalutazione di tutto il patrimonio umano, portando alla luce anche e soprattutto le figure artistiche meno popolari, che hanno comunque lasciato un segno importantissimo nella nostra storia.

Il convivio letterarioha alternato a momenti intensi, che hanno dato voce direttamente alla produzione artistica nitida e immediata. Pepito Torres, fotografo di professione e cantante per passione, intona per noi, come voce solista, il melodioso canto spagnolo: “Si te perdiera” (Se ti perdessi), ispirato a un amore che non si può smarrire o logorare negli anni. L’inno ha in sé quel nerbo tutto romantico, piccante e suggestivo, tipico della cultura ispanica, nido ove si mescola la molteplice influenza di accenti musicali appartenenti all’antico lirismo mitico dell’elegia seducente greca e a una fitta trama sonora di capolavori semitici e musulmani. Marisa Longo ha recitato “Il mare d’inverno”, un componimento tratto dalla sua raccolta “Schegge di ordinaria poesia”. Tutti i presenti, che hannio condiviso  spazio del raro e preziosissimo incontro, sono coinvolti dal discorso accorato, profondo, toccante, sincero e diretto del celebre giornalista della Stampa Estera Samir Al Qaryouti, che ha fatto generosamente dono del suo vissuto intenso e della sua ricchissima esperienza di uomo e di professionista. Ha aperto  ai riuniti in ascolto lo specchio della sua anima, per manifestare in tutta spontaneità il dolore di una guerra che ancor oggi si rinnova, antica e nuova come il sole. Ha regalato un’emozione lucida e pregnante il suo appello, attraverso il quale meglio di chiunque ha evocato il senso struggente di eventi  spesso incomprensibili. Solo chi reca sulla sua pelle, nel suo cuore e nella sua mente il segno indelebile dei conflitti può spiegare ciò che per molti è solo una notizia oscura, la quale come direbbe Dante: “intender non può chi non la prova”. Il pensiero di Al Qaryouti ha ricordato  con soave garbo le vittime tragicamente cadute a Tunisi.

coranoNell’appassionante intervento non ha fatto mistero del suo dispiacere per le mancate condoglianze verso il popolo tunisino. La strage degli innocenti che si è rinnovata in questi giorni scuote la coscienza di ogni uomo di buona volontà e ci rende tutti più consapevoli che chi si serve della violenza e sceglie la via del sangue aggredendo cittadini inermi non avrà mai la vittoria, se non nella propaganda strumentale sulla rete e sulle vie mediatiche, perché l’amore e la volontà di pace e di rispetto di ogni persona, alla lunga, vinceranno, avendo dalla propria parte la potenza di Dio. Il pensiero di Al Qaryouti è andato anche allo Yemen e alla tragedia scoppiata nella bella capitale di Sana’a, una città di antichi monumenti, caratterizzata dalla presenza di fango e sabbia, un microcosmo fragile che negli ultimi giorni ha rischiato di schiantarsi sotto le raffiche delle milizie sciite. Samir non è solo cittadino italiano, ma le sue radici affondano nella Terra Santa, baciata dall’ulivo, luogo mistico e divino che più di ogni altro posto al mondo doveva essere preservato e difeso come inviolabile culla della pace e del perdono. Al Qaryouti ha portato l’esempio del poeta Nizar Qabbani, che non si stanca mai di parlare d’amore, nonostante l’incombere del pesante fardello di guerra. La gente non deve perdere fiducia nella religione: il Corano è un libro sacro, che indirizza l’uomo verso pace, carità e giustizia, perché l’autentica religione musulmana non chiama allo sterminio, ma alla tolleranza e all’aiuto del prossimo e in questo risulta essere strettamente connesso alla “buona novella” del Santo Vangelo e del Vecchio Testamento. Tre sono le sacre fonti che confluiscono in un unico grande testamento d’amore universale, che disarma la lingua e le mani, rinnovando i cuori e le menti. Tutto ciò è fondamentale da comprendere intimamente con la ragione e lo spirito, perché la parola che incontriamo sia sempre “fratello” e lo stile della nostra quotidianità diventi: shalom, pace, salam. L’auspicio impareggiabile è che le tre grandi religioni monoteiste: ebraismo, cristianesimo e islamismo possano un giorno essere unite per condividere, senza paure, timori, rancori o prevaricazioni la ricerca della Verità Assoluta.

Tutto ciò alla luce di un faro comune che irradia ogni credo, persino quelli apparentemente più distanti come: paganesimo, induismo, buddismo, animismo o la stessa religione degli Yezidi (una piccola minoranza curda, che ancor oggi fra i massacri e gli orrori della guerra, vorrebbe col suo dolore espiare il peccato più grave di lucifero, “angelo pavone”, che secondo il loro culto Dio avrebbe perdonato a causa del suo copioso pianto). In ogni fede si avverte, dunque, questa “titanica spinta” all’espiazione dei mali che ci impediscono di costruire un paradiso di solidarietà reciproca e di elevazione della precipua impalpabile essenza tramite l’accoglienza sincera e calorosa dell’alterità, in quanto frutto del mistero d’amore divino. Un senso di spontanea gratitudine sorge nel cuore di tutti gli invitati, che ricevono tramite l’abile mediazione culturale, sociale, linguistica e religiosa di Al Qaryouti una testimonianza pregnante, decisa, passionale e allo stesso momento dolce, sensibile e coinvolgente della soave poesia orientale. La lingua araba, con le sue forme eleganti e sinuose, si presta nella sconfinata ricchezza dei vocaboli e nella particolarità dei suoni aspri e teneri insieme a essere fonte preziosa e inesauribile di un linguaggio poetico, che scaturisce la potenza di indelebili emozioni. Il suo inno danza sulle ali del tempo al ritmo di un magico flauto donde provengono le alchimie indomite e selvagge del deserto, luogo di contemplazione silente, dimora ove fiorisce saggezza libera e inattesa. Samir presenta al circolo intellettuale la figura di Maghdi Safwan, un poeta speciale, che ci porta col pensiero e il cuore alla sua terra: l’Egitto, sede di un’affascinante civiltà millenaria. Questo incredibile artista ci racconta in versi importanti spaccati di tradizioni e storie popolari egiziane, con un linguaggio assai particolare in cui l’armonia perfetta del classico è ravvivata dai toni briosi del dialetto, con un andamento ritmato, che si presta alla musica e alla danza. Egli recita per noi un’ode meravigliosa, dedicata al suo più bel tesoro “Mio nipote”. Dal componimento emerge tutta la sconfinata tenerezza e l’inesauribile affetto di nonno verso un frutto miracoloso, nato dalla vita che egli stesso un tempo ha contribuito a generare. Tra i versi più belli ricordiamo l’incipit di questo appassionante canto: “La più bella canzone per te nipote mio, /quando mi vedi, piccino, gioisci, /alzi la mano per toccar la mia, /il ciuccio sempre in bocca e il tuo sospiro pulsa nelle mie vene”.

piramidi_egittoSubito dopo l’intervento di Safwan, Al Qaryouti introduce un’altra eccellente poetessa-scrittrice marocchina Dalila Hiaoui. Questa straordinaria figura di donna onora il pubblico con la sua sorprendente capacità di raccontare in versi un mondo sconosciuto che suscita sospetto e stupore, dove la poesia esiste dall’epoca preislamica e nei millenni si è rinnovata partendo dalla tradizione. Espressioni inedite interpretano le emozioni che scaturiscono dalla realtà: la relazione uomo-donna, il proprio corpo, l’amore per se stesse, l’erotismo, solitudine e indipendenza. Come giustamente sostiene Dalila solo la geografia può renderci “cittadini del mondo”, annullando confini, timori e pregiudizi. Il suo componimento è un suggestivo canto, una rara melodia che ci fa viaggiare con lei nel regno delle memorie antiche, nella sua realtà di bambina che riceve i primi insegnamenti: “l’ambizione non cammina oltre la vista, il pensiero può essere fonte di pericolo, l’orgoglio è una scintilla difficile da spegnere.” Esempio di sincera compenetrazione fra l’arte orientale e occidentale viene offerto dalla poetessa italiana Anita Napolitano che traduce i versi anche in arabo, chiamando a sé la nobile interpretazione di Samir per la lettura del testo nella sua lingua madre. La poesia “Sibilla Solitaria” è all’interno della II sezione titolata “I fiori di Dio”, dedicata ai bambini del libro “L’agonia dei fiori”. Molto suggestiva è la prima invocazione del testo: “O leggiadra Luna, / che senza tempo ti trastulli / nel petto del colle, tu, /che sali a illuminare il buio, /mille cose tu sai, / mille cose discopri”. Il nostro eccezionale comunicatore e giornalista italo-palestinese lascia la parola al pittore Ennio Calabria, che lo ringrazia intensamente per la visione e lo sguardo onesto che ha donato sulle struggenti vicende contemporanee, spronando la capacità critica di tutti i riuniti a meditare sulla violenza più o meno larvata dell’attuale società di superfice, il cui rischio maggiore è quello di incombere dentro uno spietato processo di “robotizzazione”. Questo straordinario genio dell’immagine figurativa domanda quale possa essere oggi lo scopo di un terrorismo che vuole uccidere individui, la cui unica colpa è quella di esistere.

Altra grande testimonianza dell’arte spagnola è incarnata da Antonio Mendoza, poeta e giornalista della Stampa Estera, che rende l’intero cenacolo culturale spontaneamente coinvolto nella lettura italiana della sua ultima opera, dove affronta lo scomodo argomento del terrorismo di massa, insieme soprattutto a quello personale “face to face”, che potremmo definire “artigianale” criminalità, votata a confondere libertà con libertinaggio. Il poeta è chiamato, dunque, oggi più che mai a essere fonte di sincerità. Egli si ricollega nel suo inno al Salmo 94 dell’Antico Testamento, ricercando proprio la versione ebraica originale del brano. Il nome del componimento è: “Glossa sul salmo ,”94dove invoca il “Dio della vendetta” affinché “rifulga” e dall’alto della sua luce punisca “l’assassino del sorriso”, così definisce l’uomo che brutalmente uccise un giovane e innocente ragazzo di Terni. Stefania Lubrani, poetessa e scrittrice, fa un brillante intervento sul pregio della poesia, che inaspettatamente consiste proprio nel suo essere reputata, con volgare disprezzo, “inutile”. Il paradosso è che la “mancanza di effettiva utilità pratica” fa dell’arte un bene inestimabile, senza prezzo, che non può essere quantificato o commercializzabile e resta pertanto integro e onnipresente nella storia. Lubrani si dedica alla lettura di altri autori, per dare spazio a una visione di più ampio respiro, che generosamente trascende dalla sua personale espressione artistica, regalandoci un momento ideale per apprezzare il talento umano in generale. Particolarmente bella è l’ode di Domenico Massimo Miceli: “Il cielo fuori la finestra”, che canta “il respiro calmo della notte”, “il gioco dell’infanzia” e “nuvole nere che disegnano fuggevoli asterischi”. La splendida e commovente lettura di testi poetici fa spazio alla caratteristica danza del ventre, che celebra l’allegro finale dell’entusiasmante serata culturale. Le meravigliose ballerine dai corpi sinuosi, agili, incantevoli e sensuali eseguono, con le loro vesti etniche di scintillanti armonie fiorate, passi in ritmo classico come “Aza ana” e moderno quale ad esempio “Ya habibi wahesny”. La fantastica corrispondenza d’arti è suggellata dal fervido augurio che il potere della creatività, quale insostituibile strumento di sublimazione, converta le durezze terrene, per naufragare in una catarsi “psicologicamente sana” dei conflitti interiori, che, nel saggio equilibrio tra l’antico e il moderno, possa far sorgere nuovi efficaci strumenti di comunicazione, meta indispensabile a una società dipinta sotto il prodigioso emblema della multietnicità e del multiculturalismo. Volontà, fede e speranza avranno un solo esito: la consapevolezza, grazie a uno spirito rinnovato, di appartenere tutti all’ineffabile piano della vita, che rende segretamente unite le nostre radici nel grembo del creato e ci impedisce l’uso mortale della forza concesso alle nostre mani, per riscoprire un senso di fraternità universale, vero completamento e scopo dell’esistenza, come prova d’amore.

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