Il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta.

Paul Valéry

DARIO ARGENTO E GLI “ITALIAN GIALLOS”: RACCONTI DI VITA A PASSO DI THRILLER

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«Io sono il mezzo attraverso il quale gli incubi peggiori si possono incarnare…» Lo scrive Dario Argento in Paura (Einaudi ed., pp. 354, Euro 19,50), la sua autobiografia. Una verità da Caronte, il traghettatore dell’Ade, che fa sponda fra la realtà e l’oltre. Perché tutti i film di Argento sospingono i sensi dello spettatore al di là di ogni soglia percettiva immediata. Anche i primi gialli investigativi, da L’uccello dalle piume di cristallo a Quattro mosche di velluto grigio, evocano spazi indecifrabili perfino con la psichiatria, quando si smascherano assassini affetti da turbe della personalità. Ciascuno di loro sfida anche la scienza medica come strumento d’interpretazione. Sono tutti “i peggiori incubi”: Eva Renzi, la moglie del gallerista in L’uccello dalle piume di cristallo, Mimsy Farmer, quella del batterista in Quattro mosche di velluto grigio, Aldo Reggiani, il ricercatore aggressivo de Il gatto a nove code. Ciascuno di loro, inoltre, anticipa solamente il gorgo di orrore che ruota intorno alla Clara Calamai di Profondo rosso. Dopo di lei giungeranno mostri più terrificanti.


Dario PauraPaura
è condotto magistralmente sia lungo i binari del cinema sia lungo quelli della confessione. A partire da questa. Argento attacca in medias res. È il 1976. Sta per uscire Suspiria, la pellicola che lo consacrerà nel mondo. Lui, invece, si rinchiude in una suite di via Veneto, all’ultimo piano dell’Hotel Flora. Seguendo il consiglio di un amico medico, fa spostare i mobili davanti alla porta-finestra per combattere la tentazione del suicidio gettandosi dall’alto. L’autolesionismo è l’incubo peggiore di tutti. Arduo da superare anche per chi, come Argento, sa padroneggiare i tempi, i ritmi ed i modi della paura con il montaggio cinematografico. Il quale, a questo punto, procede per flashback. Così la vita del protagonista comincia a scorrere dal passato, dallo studio fotografico della madre, Margherita Luxardo, in cui, ancora bambino, Argento vede sfilare le dive del cinema che vengono a posare. Donne bellissime che gli stampano dentro una fantasmagoria femminile che inevitabilmente lui riprodurrà sullo schermo. Altro che ucciderle, Argento le ama. Quelle che periscono fra le mutilazioni e gli schizzi di sangue delle sue opere non esprimono misoginia, bensì voglia di proteggerle dal Male che incombe su tutte. Anche nell’intimo del regista, che però vince la lotta con se stesso e sopravvive alla depressione di quello stacco iniziale ambientato nella suite dell’Hotel Flora.

La suspance nelle stanze della memoria

Delicatissimo il rapporto di Argento con il padre, Salvatore. È lui a rischiare di persona per l’esordio del figlio da regista. Produrre L’uccello dalle piume di cristallo è il pegno estremo e concreto di un amore paterno premiato dal successo. Ancora: l’attrazione per Torino, dove Argento gira molti esterni, pare compiersi nella pubblicazione di questo libro da parte della storica casa editrice torinese. Poi, le donne vere del regista. Marisa Casale, la prima moglie, Marilù Tolo, Daria Nicolodi e Primo Amore, che sparisce al principio del libro e poi vi torna inattesa, secondo le regole della grammatica del giallo. Allora si capisce che ognuno può ritrovarsi “il peggiore incubo” per se stesso in quanto protagonista della propria umana vicenda. Dario Argento in Paura dimostra che il racconto della vita ha il passo del thriller, ed anche nelle stanze della memoria si annida suspense.

Per di più, il regista avviò il filone, o più precisamente ne codificò tendenze già palesi. La peculiarità di Argento fu di innescare la voga dell’animale nel titolo, come metafora. E non solo. A corredo, un’attribuzione evocatrice di morte, di crudeltà e di sangue: artigli, acciaio, rosso. La stagione del giallo cinematografico italiano ad alto contenuto di terrore, follia, sesso e sadismo parte dalla metà degli anni ’60 e arriva all’inizio degli ’80, quando la trasformazione dell’Italia è compiuta. Una penisola paciosa, agreste e ridente diviene l’ennesimo pezzo di occidente avanzato e disavanzato. Le città si frammentano e comincia a sparire l’esistenza rionale. Sui mezzi pubblici non s’incontra più la faccia del solito percorso ma “the familiar stranger”, l’estraneo familiare.

Argento, gli “Italian giallos”

Adesso quei film li chiamano “Italian giallos”, dopo la loro elevazione ad opere cultuali da parte del sopravvalutato Quentin Tarantino. Trasposti in DVD, vanno a ruba sul mercato non solo americano, anche perché si aveva l’accortezza di doppiarli o di girarli addirittura in inglese, facilitandone la distribuzione oltre confine. Peraltro, si trattava quasi sempre di coproduzioni, con riprese nordeuropee, a Londra, a Berlino, a Copenaghen o alle latitudini mediterranee: Atene, Istanbul, l’Africa settentrionale. Il cinema italiano non si era chiuso negli appartamenti minimalisti dei giovani autori, con musiche pietose e trame depressive.

Argento

La donna, sempre protagonista degli “Italian giallos”

Gli “Italian giallos”, dunque, riflettevano i mutamenti epocali di una società, non solo nostrana, che si apriva agli incubi della modernità con gli incubi privati di personalità anomale, tutte incarnazioni dell’Unheimliche, il perturbante, termine introdotto nella psicologia da Ernst Jentsch e sviluppato da Freud. Gli assassini di questi film, infatti, non hanno quasi mai le “solide ragini” di cui scrive Raymond Chandler in La semplice arte del delitto. Al contrario, sono ossessionati da turbe di origine sessuale, edipica o onanista. Come il maniaco di Sei donne per l’assassino, diretto da Mario Bava nel 1964 su sceneggiatura di Marcello Fondato. Qui si stabilisce lo schema ricorrente di tante pellicole successive. Un uomo dalla personalità disturbata ammazza le modelle di un’agenzia con accanimento efferato. Su cui la cinepresa insiste, portando all’estremo il voyeurismo misuratissimo di Alfred Hitchcock nella celebre scena della doccia di Psycho, del 1960. Da questo punto di vista, è un cinema che deve molto anche al fumetto nero di quegli anni. “Kriminal”, “Satanik” e i cattivi con il K, alcuni a loro volta trasposti per il grande schermo, impazzano con una carica di violenza talmente esagerata da risultare parodistica.

Il giallo su pellicola rende ancora più vividi quei corpi femminili in technicolor squarciati da coltelli prestati dalla macelleria all’omicidio. Con colpi che da soli decapiterebbero un bue. Prima e dopo il picco di Dario Argento, gli spettatori ingenui e onnivori di quegli anni vengono intrattenuti da vicende morbose nelle quali domina l’erotismo guardone, circondato di fatuità ultramoderna, lusso borghese e snobismo profumato. Però il meccanismo funziona. Non solo con il pubblico maschile. Perché in quei film la donna acquista sovente una preminenza nuova. Grazie anche alla bellezza di attrici che oggi non hanno uguali.

Si pensi alla Edwige Fenech degli inizi, prima che si calasse nei panni, succinti, della poliziotta, della tassinara e della pretora. In Tutti i colori del buio, di Sergio Martino, del 1972, domina un primo piano allo specchio, mentre si trucca. La carica sensuale di quell’inquadratura priva di nudità esplicito vale da sola ogni scena erotica del film. Sulla stessa Fenech si reggono le convulsive tragedie de Lo strano vizio della signora Wardh, dell’anno precedente, con lo stesso regista, e de Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave, del 1972, sempre di Sergio Martino, al culmine di una trilogia labirintica di perversioni assortite. Supportata dal doppiaggio pastoso di Rita Savagnone e Maria Pia Di Meno, l’attrice esprime l’esatto contrario di un asservimento sessuale. È lei la dominatrice. Anche quando viene minacciata da un coltello, nuda, o legata per un gioco sadomaso in Cinque bambole per la luna d’agosto, di Mario Bava, del 1970.

Accanto a lei, l’americanissima Carrol Baker, appannata dopo il trionfo di “Baby Doll” e transfuga in Spagna, Messico e Italia per concedere a platee meno pruriginose di quelle statunitensi la sua avvenenza matura. Dal suo sodalizio artistico con il regista Umberto Lenzi escono Orgasmo (1969), Così dolce così perversa (1969), Paranoia (1970), e Il coltello di ghiaccio (1972). Ma nuda e sinuosa, la si ritrova anche in Il dolce corpo di Deborah (1968), di Romolo Guerrieri, e Il fiore dai petali d’acciaio (1973), di Gianfranco Piccioli.

Prima che la titolistica si allunghi, conviene effettuare un distinguo sul livello della trama. Quest’ultima, nella media, presenta più buchi dell’Emmental. Coerenza dei personaggi inesistente, situazioni trascinate, concatenazioni esilissime, rapporto causa-effetto nullo. Con l’aggravante di dialoghi molto, o moltissimo, convenzionali, tirati via da sceneggiatori succubi del lavoro a catena. Soprattutto, la ripetitività di un intreccio che, una volta assodato, fornisce la chiave di lettura per la maggior parte dei film. La tipologia è quasi sempre duplice. O la strage viene compiuta da una persona portatrice di un trauma, o il clima claustrofobico e ossessivo nasconde questioni di eredità, polizze da incassare ed altri bottini. Nel secondo caso, parrebbero tornare quelle “solide ragioni” sovente escluse dai “giallos” italiani. Forse. Peccato siano troppo stemperate nella tortuosità del racconto, dove convergono gli stilemi visuali dell’epoca, a base di riprese grandangolari, flashback e ralenti. Tre esempi che abbondano in La controfigura, del 1971, regia di Romolo Guerrieri. Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Libero Bigiaretti, autore piuttosto moraviano, che narra dell’amore di un giovane frustrato per la suocera, attempata e piacente. Nella versione cinematografica, viene introdotto un omicidio dai risvolti omosessuali. Sul filo di una rievocazione che comincia proprio con la morte del protagonista, colpito da un proiettile al rallentatore. Nella parte, il bellissimo Jean Sorel, che in quegli anni rappresentava il fascino maschile insieme a George Hilton, Anthony Steffen e Gigi Pistilli (reduce dagli spaghetti-western di Sergio Leone).

La componente narratologica

Argento

Quentin Tarantino

La componente narratologica dei “giallos” è primaria. Da quella si ricava la cornice di costume cui fare riferimento. L’approssimazione della trama rispecchia quella di una società che cambia senza esservi preparata. E ciò vale sia per i personaggi che per gli spettatori, entrambi obbligati a confrontarsi con scenari alieni. Non più l’animazione condivisa dei condomini dove tutti si conoscono e riconoscono, bensì fortezze popolate di inquilini che non hanno niente in comune. Oppure ville isolate da giardini che si prestano ad accogliere incursori notturni, perturbanti in nero ed armati. Gli arredi stessi perdono ogni connotazione casalinga e vengono usati per uccidere, come nel già citato Il fiore dai petali d’acciaio, in cui l’arma del delitto è proprio quella del titolo, una riproduzione floreale dalle sporgenze micidiali per chi vi incappa.

D’altronde, mescolata al blob di un filone che riempie le sale dell’epoca, si trova un’autentica perla. È La vittima designata, diretto da Maurizio Lucidi, del 1971, alla cui sceneggiatura collabora il compianto Luigi Malerba, e lo si avverte nei dialoghi. Performance irripetibile di un Tomas Millian non ancora “Monnezza”, con le musiche del “Concerto grosso per i New Trolls”, scritte da Luis Enriquez Bacalov. La trama riprende quella di Delitto per delitto, di Alfred Hitchcock, con una variante schizofrenica. Alla fine si scoprirà che il piano serve ad escogitare non un omicidio ma un suicidio.

Oggi si torna a quel periodo con la riverenza degli appassionati. Se ne è ricavato materiale per “Stracult”. Se non fosse che si rischia di trascurare il potenziale anticipatore dei “giallos”. I fondali degli anni ’70 contengono già l’orrore della saga di Hannibal Lecter. Gli investigatori improvvisati, anche quando sono normali funzionari di polizia, devono ricorrere alle tecniche adesso praticate dai profiler. Lo scrittore americano de L’uccello dalle piume di cristallo di Dario Argento, interpretato da Tony Musante, richiama il Lance Eriksen della serie televisiva “Millennium”. Insomma, i “giallos” restituiscono al pubblico una realtà che va decomponendosi e alla fine lo farà, drammaticamente, anche sul piano delle certezze di un modello economico ormai sulla via dell’implosione.

Enzo Verrengia

L'Autore

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