La gente ha sempre dichiarato di voler creare un futuro migliore.
Non è vero. Il futuro è un vuoto che non interessa nessuno.
L'unico motivo per cui la gente vuole essere padrona del futuro
è per cambiare il passato.

Milan Kundera

SCUOLA. BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI: UMANIZZAZIONE O BUROCRATIZZAZIONE DELLA DIDATTICA?

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I risultati della #buonascuola

Sono stati appena presentati i risultati della consultazione della cosiddetta #buonascuola presso il Miur e tra le proposte avanzate dai cittadini sulla piattaforma online – nei vari ambiti del sistema scuola – richiama la nostra attenzione in particolare quella relativa ai Bes, per la ricchezza e la precisione dei dettagli che l’accompagnano e ai quali il governo sarà chiamato a breve a dare una risposta concreta.

La campagna di sensibilizzazione delle istituzioni scolastiche ai problemi degli alunni con i cosiddetti Bes (Bisogni Educativi Speciali) introdotta dalla Direttiva Miur del 27 dicembre 2013 ha posto il delicato e complesso problema di una corretta informazione/formazione degli addetti ai lavori della scuola, senza la quale difficilmente quest’ultima riuscirà a fronteggiare l’annosa piaga che l’affligge: l’insuccesso scolastico di alcuni suoi allievi potenzialmente promettenti e a volte addirittura dotati di particolari talenti. Questo perché regna in generale nella scuola italiana una scarsa attenzione e una distorta informazione sul variegato scenario del disagio nello studio, aggravate da una lacunosa formazione professionale di alcuni docenti, che, seppur ben preparati nelle materie che insegnano, presentano però scarse competenze circa gli aspetti affettivo-relazionali e quindi emotivi dell’apprendimento. Generalmente però il rischio che si corre all’apparire del nuovo è quello di una informazione scadente che può provocare allarmi indiscriminati e il fallimento dell’innovazione stessa. La scuola non sfugge a questo pericolo e a volte gli allarmi (giustificati o meno) della classe docente, dovuti al passa parola semplicistico e al chiacchiericcio di corridoio, finiscono per predisporre negativamente i docenti al cambiamento.

La normativa sui Bes non deve assolutamente essere letta e interpretata come una ulteriore indicazione alla medicalizzazione, né all’ennesima burocratizzazione della didattica, ma come un nuovo approccio educativo che rende più flessibile, maneggevole (soprattutto più umano) l’uso dello strumentario burocratico che lo accompagna. L’introduzione dei Bes nella scuola discende dall’esigenza di dovere leggere e interpretare i notevoli e repentini cambiamenti della nostra società da una prospettiva del tutto diversa per non esserne schiacciati. L’attuale società è contraddistinta dalla eterogeneità, molteplicità e complessità, quali suoi aspetti fondanti, aspetti che richiedono un’analisi attenta, continua e trasversale per essere decodificati correttamente e riconosciuti come parti dialettiche di un discorso globale. I Bes nascono all’interno di questo discorso globale e traggono spunto, a livello mondiale, dall’idea del modello diagnostico ICF (International Classification of Functioning) dell’OMS, che considera la persona nella sua totalità, in una prospettiva bio-psico-sociale.

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La cultura dell’inclusione

Ci troviamo di fronte a un cambiamento di rotta, a un cambiamento di paradigma che ci porta a leggere la nuova normativa come una rivoluzione copernicana, che si sostanzia del passaggio dalla cultura dell’INTEGRAZIONE (che rappresentava il tentativo della scuola di adattare con interventi di sostegno il soggetto deficitario ad uno standard culturale equiparabile alla norma, modello culturale questo che ha regnato degnamente nel nostro paese per circa 30 anni a partire dalla L. 517 del 1977) ad una cultura dell’INCLUSIONE (che corrisponde alla nostra attuale politica dell’accoglienza di tutte le differenze bio-psico-sociali all’interno di un contesto glocal, come si dice oggi). Si tratta – ad una lettura ben attenta della normativa e ad una riflessione pacata di alcuni osservatori di rilievo del panorama pedagogico italiano (vedi R.Pedeghini, F.De Anna, Anna Bravi)– di un cambiamento di modello pedagogico che invita a pensare ai BES e agli alunni a cui essi si riferiscono, non più in termini di DEFICIT ma in termini di DIFFERENZE. In questa prospettiva bisogna riconoscere gli alunni con le loro differenze culturali, linguistiche, ambientali, etniche, ma anche con le loro differenti capacità e potenzialità di approccio allo studio. Si tratta insomma di ri-pensare la platea scolastica di riferimento non più in termini di OMOGENEITA’, ma in termini di ETEROGENEITA’: trasferito dal piano sociologico al piano dell’offerta formativa di una scuola questo vuol espressamente dire – in modo semplice e brutale – che essa (la scuola) non può e non deve più dare a tutti la stessa cosa (il programma e/o il curricolo), ma dovrà adoprarsi per individualizzare e personalizzare i suoi interventi educativi e didattici, accogliendo nel suo grembo ciascun alunno con le sue personali caratteristiche.

La cosa non sembra essere di poco conto. Si può pensare tutto questo applicato praticamente alla realtà delle classi delle nostre scuole costituite normalmente da non meno di 30 alunni, quando sappiamo che 20 sarebbe il numero di alunni consentiti per non incidere negativamente sulla qualità della didattica, secondo la sentenza n.2250/2014? Si può pensare tutto questo con docenti sfiduciati, demotivati, sottopagati, a volte i più responsabili vittime di burnout – chiamati a sopportare un carico di lavoro lievitato sia in quantità che in qualità, senza essere sfiorati dal sospetto che stiamo assistendo a una farsa? E così ancora una volta ci troviamo di fronte all’ennesima dicotomia profonda, molto peculiare al nostro paese: da una parte una lungimiranza e una bontà legislativa encomiabili (non dimentichiamo che abbiamo una delle migliori Costituzioni del mondo!), dall’altra la becera applicazione di dette norme alla realtà sociale con un travisamento che finisce per renderci la vita caotica, drammaticamente precaria e qualitativamente scadente rispetto ai paesi culturalmente avanzati. Possibile che non si riesca mai a curare questo strabismo di fondo e venire a capo della lacerazione che caratterizza il nostro vivere? Cosa occorre di particolare che faccia incontrare queste due anime del nostro paese, se non il coraggio di riconoscere apertamente l’atteggiamento mentale che sta alla base di quella dicotomia? Simulazione di buoni sentimenti e intenzioni lodevoli allo scopo di ingannare qualcuno. Così lo Zingarelli alla voce: ipocrisia. E allora sembra essere questo il vero problema del paese: a parole tutti pronti a salvare la cosa pubblica, nei fatti tutti in azione per sfasciarla. Ma così non si va molto lontano. Staremo a vedere.

Nicola Corrado

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