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Gianni Rodari

Geopolitica. La forza profetica di Halford J. Mackinder

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geopoliticaÈ nel presente che si scopre la forza profetica di un autore e della sua opera. Rileggere nel 2014 Democratic Ideals and Reality, il breviario geopolitico di Halford J. Mackinder lascia sgomenti per l’aderenza allo stato attuale delle cose che si ritrova fra queste pagine. L’autore, un accademico inglese dalle molteplici competenze, lo scriveva nel 1919, all’indomani di quell’apocalisse continentale che fu la Grande Guerra. Oggi, a cento anni di distanza dallo scoppio di quest’ultima, in Europa si delineano pericolosamente le premesse di un conflitto analogo. Anzi, secondo Papa Francesco ed analisti laici, la terza guerra mondiale si combatte già, anche se con tempi e metodi differenti da quelli di allora. Mackinder aveva previsto il rischio di una cronicizzazione del ricorso alle armi fra nazioni imperfette nella loro stessa consistenza territoriale. Infatti lui partiva dal suo campo di studi specifico, la geografia. Grande conoscitore della mappa planetaria, individuava codici interpretativi delle relazioni internazionali studiando le longitudini e le latitudini. La definizione esatta della professione di Mackinder sarebbe quella di geostorico. Stando alla sua visione del mondo, l’estensione e la posizione di una comunità specifica ne determina gli orientamenti, le potenzialità e l’affermazione sulle altre. Mackinder analizzava i potentati dei secoli trascorsi, dagli albori della civiltà agli imperi navali dell’età moderna, per ammonire contro il pericolo di una deriva occidentale verso l’autodissoluzione. A meno che non si arrivasse al controllo dell’Heart-Land. Cos’era? Nient’altro che la massa continentale dell’Eurasia, quella che successivamente avrebbe voluto dominare Hitler. Tanto che il libro di Mackinder, rieditato nel 1942, quando la seconda guerra mondiale era al culmine, contiene una forte amarezza che si evince dalla prefazione.

Il pensiero geopolitico dell’autore è stato ripreso da Karl Haushofer e da questi ha attecchito nella mente del Führer, che ha violato il patto Molotov-Ribbentropp per lanciare le armate tedesche lungo le pianure dell’Europa orientale, alla conquista del terreno slavo. Mackinder ravvisava i sintomi della Germania conquistatrice dai tempi di Bismarck. Per il quale l’unificazione nazionale non era altro che l’aggregarsi di un impero volto al controllo dell’Heart-Land. Ma la lungimiranza di Mackinder sui tedeschi va ben oltre. In Democratic Ideals and Reality spiega che negli istituti scolastici prussiani la geografia aveva un posto d’onore. Perché si trattava di formare un’élite capace di affermarsi nella turbolenza di un’epoca, quella contemporanea, di facili spostamenti sulla superficie terrestre, quando ormai le esplorazioni sono terminate con l’accesso ai poli e non rimane che organizzare l’atlante a vantaggio dei più dotati. Mentre i docenti inglesi irridevano la geografia, ritenendola superflua, se non inutile, anzi dannosa, in quanto fomentatrice di idee guerrafondaie. Mackinder sosteneva che la Terra, dopo l’invenzione di mezzi che permettono di attraversarla rapidamente, si può suddividere in isole geopolitiche. La principale è quella eurasiatica. Chi la controlla, controlla il mondo. Questo cronicizza non solo il rischio di guerre continentali che l’unione monetaria non sventa. È l’eterno ritorno del fattore G, dove la G sta per Germania. Oggi Berlino detta le proprie condizione alla fragile unione europea su basi geopolitiche, non personali. Chi appunta il rancore su Angela Merkel ignora che dietro di lei, insieme a lei e per lei si esprime un coacervo d’interessi che ripropongono la Kultur di Bismarck. La stessa riunificazione seguita al crollo del Muro non rappresenta che il logico e prevedibile sbocco di un percorso obbligato del disegno tedesco. Che è l’occupazione anche materiale dell’Heart-Land. Non pressioni sugli stati indecisi nel rispetto dei parametri finanziari, non ammonimenti di Schaüble sulla flessibilità della manodopera, non ferree norme di controllo della spesa pubblica.

Il linguaggio dell’economia nasconde quello della geopolitica. I diktat di Berlino sono la terza ascesa della Germania con altri mezzi e senza ideologie. Peraltro, fin dal 1919, Mackinder faceva geopoliticarilevare che gran parte dello sviluppo industriale delle società avanzate dipendeva dall’infusione del talento tedesco. Gli ebrei di radici mitteleuropee erano i principali artefici delle innovazioni tecnologiche dalle quali scaturiva lo sviluppo dei mercati. Che cosa fanno ora gli altri contendenti? Washington sembra interessata unicamente a trarre vantaggi militari e commerciali dalla debolezza dell’Euro e dalle risse intracontinentali. Londra coltiva l’inamovibile predominanza della City su tutte le transazioni del pianeta. Esattamente come nel 1914, l’unica forma di resistenza attiva all’accaparramento tedesco dell’Eurasia viene da Mosca. Una Mosca non più zarista ed ancor meno comunista, ma ugualmente mossa dal carisma autoritario. Che sia Putin o un altro conta solo per dare un nome all’equivalente russo del Führerprinzip tedesco. Mentre si combatte un nemico sul piano degli interessi globali, si collabora su quello delle convenienze reciproche. Smessi i panni di cancelliere, Gerhard Schröder non rifiuta l’offerta del gigante energetico russo Gazprom di dirigere il consorzio Nord Stream AG. In tale veste, guida la costruzione di un gasdotto che parte dalla costa rdi Vyborg e giunge al quella tedesca di Greifswald, transitando per il Baltico. E Schröder non ne beneficia soltanto a livello personale. Rende un servigio alla madrepatria. D’altronde, perfino ai tempi del Patto di Varsavia, la Germania dell’Est era un fortilizio di affidabilità strutturale e burocratica per il fatiscente impero sovietico. I migliori utensili venivano di là. Il più grande manipolatore di segreti era Markus Wolf, un tedesco cui si ispirò John Le Carré per la figura di Karla, l’arcinemico di George Smiley e del servizio segreto inglese. Tutto questo, malgrado l’atroce sconfitta del 1945.

Quando arrivarono i sovietici, non fecero distinzione fra tedeschi buoni e tedeschi cattivi. Per loro c’era solo da vendicare l’affronto dell’Operazione Barbarossa, il proditorio attacco subito nel giugno del ‘41, costato alla Rodina, la patria russa un ammontare di morti che fino a Gorbaciov fu valutato uffi­cialmente in venti milioni, poi risultò superiore, per quanto imprecisato. I sol­dati di Zukov e Konev non si limitarono a stuprare fisicamente delle vittime. Umiliarono l’anima cortese di una città in cui fino agli ultimi giorni, sotto il fuoco delle Katjusce, “gli organi di Stalin”, tutto funzionava ancora, dalle po­ste, all’acqua, al gas e all’elettricità. Le armate della steppa entravano nelle case e facevano incetta di orologi, perché non ne avevano mai visti tanti. Come indigeni che raccogliessero le spoglie di un naufragio. Quindi si dedicavano per ore a un gioco incredibili: tirare e ritirare gli sciacquoni delle toilettes, perché non avevano mai visto niente del genere. Questa non è leggenda, ma storia. Anche quel soldato sovietico che innalzò la bandiera rossa sulla Porta di Brandeburgo, si affacciava su un nuovo mondo. E paradossalmente, l’invasione della Germania portava nel cuore dei russi l’aria della libertà, di un anelito verso l’Occidente che quarant’anni dopo avrebbe portato al crollo della loro versione di totalitarismo, proprio là, a Berlino. Tornando a Mackinder, la sua lezione non sarebbe stata compresa e plagiata solo da Karl Haushofer. Un altro pensatore tedesco, negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, avrebbe elevato a paradigma la teoria degli imperi che si controbilanciano nell’equilibro geopolitico a preminenza della Germania.

geopoliticsÈ Carl Schmitt, controverso assertore del totalitarismo come modello unificante ed omologante della convivenza civile, di cui il nazionalsocialismo costituiva l’esempio perfetto. Non su basi retoriche e revansciste, bensì a partire proprio da una concezione della geografia. Scrive Schmitt in L’unità del mondo, del 1939: «L’idea geopolitica dei “grandi spazi”, che a tutta prima si era affermata in relazione agli sviluppi economici, industriali ed organizzativi, in breve tempo è andata ad esercitare una influenza irresistibile come nella sede del diritto internazionale. I mutamenti subiti dalle prospettive e dalle dimensioni spaziali sono troppo visibili e, soprattutto, troppo effettivi affinché si possa continuare a conservare le concezioni dell’anteguerra». Con queste parole, Schmitt introduce una dissertazione strategica sulla praticabilità delle azioni tedesche nelle imminenti ostilità. Hitler non poteva recepire una simile raffinatezza. Qualche suo generale sì, però. Ne conseguì un dato sui quali pochi hanno riflettuto. La sconfitta del nazismo non coincise con quella strutturale della potenza tedesca. Dopo il suicidio del Führer nei sotterranei della Cancelleria, il governo passò brevemente all’ammiraglio Dönitz, che trattò la resa con gli alleati. Eppure il grosso delle armate era intatto sui numerosi fronti. Soprattutto, le infrastrutture produttive di Berlino non avevano subito danni irrimediabili dai bombardamenti. Al contrario, questi erano indirizzati sulla popolazione civile, per fiaccarne il morale. Forse la Germania non sta riscattando la sua Storia, ma puntando ad una vittoria definitiva, senza perdite umane. Sempre che non si considerino quelle di un’economia stravolta.

Enzo Verrengia

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