Il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta.

Paul Valéry

Grandi navi, transatlantici leggendari, pirati e misteriosi incidenti in mare

1

naviUn palazzo di parecchi piani in movimento sull’acqua. È l’effetto che fa una grande nave al suo passaggio nella laguna di Venezia. Dove “l’inchino” all’architettura irripetibile della città sa di beffa. Ma non solo. Anche lungo le coste non certo oceaniche dell’Adriatico. Sembra che la follia edilizia si sia spostata in mare dopo avere irrimediabilmente cementificato la terraferma. Il livello delle acque si alza per l’effetto serra o per il principio di Archimede sui corpi immersi? Adesso che è finito il lungo e tragico spettacolo post-naufragio della Costa Concordia, viene da domandarsi perché nessuno abbia avuto il coraggio di dichiararlo prevedibile, inevitabile, ineluttabile. Senza che, peraltro, si distingua un equivalente attuale del Lord Jim di Jospeh Conrad, capace di riscattarsi con l’eroismo di dopo dall’inadeguatezza dimostrata negli attimi dell’emergenza acquatica.

Il terrore dell’incidente marittimo non può che ricondurre all’affondamento del Titanic, avvenuto il 15 aprile 1912. Un miliardario australiano, Clive Palmer, vuole ricostruirlo e ha dichiarato: «Sarà identico in ogni dettaglio al Titanic originario, a cominciare dalle caratteristiche più lussuose, ma avrà anche a bordo le più moderne tecnologie oggi disponibili». La fine del leggendario transatlantico fu misteriosamente anticipata da un romanzo di Morgan Robertson del 1898, che uscì negli Stati Uniti. L’autore immaginava un immenso natante dalla stazza di 70.000 tonnellate, lungo 800 piedi, con un carico di 3000 passeggeri. Il nome? Incredibile, ma vero: Titan. Il transatlantico cozzava contro un iceberg durante la crociera inaugurale, che in inglese viene definita maiden voyage. Le misure erano pres­soché identiche a quelle del Titanic, che stazzava 66.000 tonnellate, per una lunghezza di 825,5 piedi, e ospitava 3000 passeggeri. Coincidenze e nient’altro. Scaturite dall’accorta documentazione dell’autore sulle manifatture navali dell’epoca; supportate dalla necessita di grossi spostamenti commerciali e umani in un mondo sempre più dipendente dalle comunicazioni ed avviato a globalizzarsi.

Il transatlantico diviene metafora di tutti le catastrofi del XX secolo in Corale alla fine del viaggio, un romanzo del norvegese Eric Fosnes Hansen, scoperto e lanciato da Peter Høeg.
Meno ricordato, benché ugualmente terribile, l’inabissamento del Lusitania, nel maggio 1915, forse dovuto all’attacco di un sottomarino tedesco, perché il transatlantico av­rebbe trasportato in segreto un carico di armi. Viene da più indietro l’enigma della Mary Celeste, che transatlantico non era, ma ugualmente costituisce un mito incancellabile dalle memorie marittime. Il 4 dicembre 1872 il tre alberi americano Dei Gratia avvista un veliero che avanza a zig-zag 400 miglia a est delle Azzorre. La velatura è parzialmente ammainata e dalla prima nave, non ricevendo risposte ai segnali, salgono a bordo del mi­sterioso vascello il secondo e due uomini. È tutto deserto. Il diario di bordo si ferma al 25 novembre, quando la nave si trovava a 500 miglia marittime dal luogo del ritrovamento. Non rimangono nemmeno le scialuppe. Si apprende la denominazione del veliero, Mary Celeste, immatricolato nel porto di New York. Nessun indizio sul destino delle persone che si trovavano a bordo. Nel gennaio del 1884 viene pubblicato a Londra La testimonianza di J. Habakuk Jephson, diario fittizio di uno scampato del veliero, a firma di un venticinquenne di nome Arthur Conan Doyle, che sei anni dopo avrebbe dato inizio alle avventure di Sherlock Holmes.

Per quanto le Azzorre siano distanti dal Triangolo delle Bermude, la scom­parsa della Mary Celeste rimanda diritta a quelle del più famoso, o famigerato, tratto marino della storia. Che a sua volta navirisente di leggende ormai inestir­pabili come quella dell’Olandese volante e del vascello fantasma. Poi, nel dopoguerra, con l’ennesima risalita della borghesia opulenta e bottegaia, la consuetudine della crociera divenne alternativa di massa ai quidici giorni in pensione tutto compreso. La tragedia dell’Andrea Doria, nel 1956, fu considerata un’unicum da moltitudini che i media dell’orrore permanente non avevano ancora nevrotizzato, narcotizzato ed infine assuefatto. È opinabile che il calo del livello di fruizione non si possa collegare a quello della sicurezza. Eppure, la qualità dei viaggi per mare ne ha risentito. Anche perché, con l’avvento dei voli aerei, le navigazioni hanno finito sempre di più per divenire essenzialmente di piacere. «Per chi vive a terra ed è abituato alla prospettiva di un’esistenza tranquilla, l’idea che gli oceani siano sull’orlo dell’anarchia rischia di suonare inaccettabile.» Il concetto, pochissimo rassicurante, ritorna in tutti i capitoli di “Terrore dal mare”, di William Langewiesche. Eccellente esempio di reportage narrativo, il libro contiene dati ineludibili sullo status quo delle vie acquatiche, per le quali transita ormai di tutto.

L’autore parte dal quadro disastrato di una deregulation che permette la registrazione delle navi indipendentemente dalla vera provenienza. A questo si aggiunge l’onnipotenza delle società armatrici, autentiche potenze navali che hanno sostituito le temibili flotte del passato. Il pericolo più immediato lo corrono gli equipaggi, malpagati e a prevalenza di origini terzomondiste. Uomini disposti a sobbarcarsi ogni genere di rischio pur di mandare a casa dei soldi necessari alla sopravvivenza di famiglie travagliate dalla povertà endemica di Paesi come l’India, il Bangladesh, il Pakistan. Per loro, l’alternativa consiste in un’esistenza tribolata sulla terraferma e l’avventura in mare, spesso senza ritorno. Langewiesche descrive il naufragio del “Kristal”, una mastodontica carretta del mare portata deliberatamente verso il centro della tempesta dal capitano ansioso di rispettare i tempi di consegna. La scarsa manutenzione, la ruggine e l’imperizia degli uomini a bordo segnano il destino del cargo in poche ferali ore di agonia.

naviMa il terrore dal mare riguarda anche le ignare popolazioni di terra, specie quelle delle nazioni occidentali esposte agli attacchi del terrorismo. Succede nello stretto di Malacca, un braccio di mare storicamente ed ininterrottamente interessato da episodi di violenza navale. Gli adepti del terrorismo fondamentalista vi braccano le navi suscettibili di trasporti già a loro volta pericolosi: le scorie nucleari. Più preziose dei carichi d’oro depredati dalla pirateria di un tempo, perché utili a fabbricare le bombe “sporche”, come quella che rischiò di esplodere a Washington. Nella zona di Kuala Lumpur, i casi di pirateria passano dai 165 del 2001 ai 171 della prima meta del 2002, con 6 morti, rispetto ai tre dell’anno scorso, 23 dispersi o catturati e 21 feriti. Lungo le coste della Somalia è stata presa in ostaggio la nave greca “Panaghia Tinoù”. Il sequestro, durato 20 giorni, si è sboccato solamente con l’esborso di 400.000 dollari da parte della “War Risk Association”, un consorzio assicurativo di 2.250 navi costrette a solcare tratti di mare poco sicuri. Scrisse Conrad: «Il mare non è mai stato amico dell’uomo. Tutt’al più è stato complice della sua irrequietezza». Allora perché lasciare che le Grandi Navi prendano il posto dei cetacei, i giganti naturali delle vie d’acqua? Perché invadere con i calafataggi un ecosistema che costituisce la maggior parte della superficie planetaria? Perché trasporre sulle onde l’edonismo sovrappopolato di una specie umana giunta di per sé all’autonaufragio?

Enzo Verrengia

L'Autore

1 commento

Lascia un commento