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Abraham Lincoln

Il Dumbo pigro di Tim Burton

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Ultimo film del regista americano Tim Burton, atteso a dirigere il remake live action del classico film d’animazione Disney del 1941, il nuovo “Dumbo” è un adattamento decisamente pigro della storia originaria, che risulta scevro da qualsiasi impronta d’autore Burtoniana, finendo per diventare un’operazione abbastanza anonima, per lo più commerciale, destinata a far presa su bambini e famiglie, avendo, però, ben poco d’artistico o di creativo, a maggior ragione se paragonato alla straripante fantasia che animava il cartone animato di partenza.

Non che fosse facile confrontarsi con la pellicola d’animazione del 1941, ma, da Burton, ci si aspettava maggiore complessità, più coinvolgimento, e soprattutto, un impronta più personale dell’autore nel leggere e rappresentare la psicologica del personaggio protagonista del film, Dumbo.

A ben vedere la storia del cartone animato è molto semplice: Dumbo, un elefantino nato con orecchie troppo grandi, che lo rendono uno zimbello perfino all’interno di un circo, riesce con l’aiuto dell’amico topo, Timoteo, a riscattare la sua condizione, riscoprendo la fiducia in se stesso e utilizzando la sua “stranezza” come una risorsa: le orecchie della derisione diventano infatti ali per librarsi in alto, che permettono di rompere la prigionia dell’umiliazione e di diventare artefici del proprio avvenire. Se la trama era semplice, non lo era invece la modalità di rappresentazione della storia. Nel cartone, infatti, grande spazio era dato all’espressività del piccolo protagonista e alle sue sensazioni nell’ambiguo e costrittivo mondo del circo.

Invece che puntare sugli animali, protagonisti indiscussi del cartone animato, nel suo film Burton sceglie di inquadrare tutto dal punto di vista di attori in carne ed ossa, umanizzando quasi totalmente la vicenda, tanto che al centro della pellicola non sta Dumbo, ma un domatore di cavalli (Colin Farrell), che dopo essere tornato dalla guerra senza un braccio (anche lui ha una “deformità” come le orecchie troppo grandi del piccolo elefante) deve reinventare se stesso dentro il circo e recuperare il rapporto coi figli, rimasti nel frattempo orfani della madre, morta di malattia.

Se questo incipit sembrerebbe suggerire sulla carta un inizio dark alla Burton, queste premesse sono smentite già sul nascere, perché ben presto si capisce come questi personaggi siano a dir poco superficiali e abbastanza anonimi, come del resto gli altri “abitanti” del circo, figure a dir poco stereotipate (il domatore di serpenti, il forzuto, ecc.), che non aggiungono niente alla narrazione, anzi tolgono, perché sottraggono spazio agli animali del circo. La scelta di Burton appare quindi poco efficace, o meglio, non è sorretta da una sceneggiatura all’altezza per cui lo spostamento dagli animali agli uomini non convince: i dialoghi scontati, risultano a tratti estenuanti e privi di pathos, mentre il punto di vista delle creature è sullo sfondo e quasi del tutto ignorato, al punto che Dumbo, l’elefantino, è un personaggio secondario, un animaletto, a tratti tenero, da agevolare e aiutare, più che il protagonista della vicenda.

La pecca principale del film, inoltre, è quella di voler smussare troppo gli angoli della narrazione, rendendo la storia originale di “Dumbo” davvero troppo limpida, semplice, puerile, e per questo, a lungo andare noiosa.

Manca ad esempio la concezione del circo come prigione, come luogo di umiliazione e di derisione, cifra essenziale del cartone del 41′, in cui non a caso i protagonisti erano gli animali che subivano spesso le angherie degli esseri umani (tra cui quelle del terribile domatore del circo), i quali, incombevano, anche a livello visivo, sulle creature, perseguendo una inquietante e feroce ottica da show must go on. Tutto questo portava ad una forte immedesimazione nell’elefantino protagonista, in balia del circo e della sua frenesia (sottolineata ad esempio dalla scena della piramide di elefanti), privato anche dell’affetto della madre.

Nel film di Burton, invece, il circo è un luogo felice, un po’ squattrinato, ma in fondo una casa piacevole in cui stare. Le immagini sono prive di ombre, dai colori vividi e concilianti. Il direttore del circo (Danny De Vito) è un simpaticone, privo di altre sfumature. Insomma, quello dello spettacolo è un un mondo abbastanza tranquillo, quasi confortevole, non una giungla di clown frenetici e dispettosi e di altre figure sinistre, in cui Dumbo viene gettato allo sbaraglio.

Non basta a Burton la seconda parte del film per recuperare questa dimensione oscura del circo, affidata al cinico proprietario di un parco divertimenti (Michael Keaton) che porta Dumbo in un circo più grande. E’ troppo poco, a maggior ragione per Burton, che in questo film avrebbe avuto l’opportunità, considerato il suo cinema, di accentuare le ombre e le ambiguità del mondo circense, piuttosto che cancellarle e annullarle, come di fatto accade.

Cosa dire poi dei “Rosa elefanti”? Una delle scene più memorabili del cartone animato di partenza e forse delle più sperimentali e creative della filmografia Disney. Nel film di Burton non sono allucinazioni di Dumbo, nate dalla sua momentanea ubriachezza, ma anche dal suo stato di abbandono e di solitudine (“Mandali via,mandali via” dice la canzone), come nel cartone animato, ma sono, semplicemente, degli effetti speciali di un grande spettacolo, quindi assumono la veste di una citazione a dir poco inutile ai fini del film, piatta anche visivamente.

Il paradosso di questo film è che Dumbo, un ultimo, un emarginato, come molte figure del cinema burtoniano (si pensi ad esempio ad Edward Mani di Forbice, ma anche lo stesso Willy Wonka nel buon remake della Fabbrica di Cioccolato), qui, non è niente di più di una creaturina simpatica che vola, la cui espressività è poco indagata anche al livello visivo, con una computer grafica che fa perdere molto allo sguardo blu dell’indifeso elefantino, in cerca di amici e di affetto, come nel cartone.

Siamo lontanissimi, anche dal punto di vista tecnico, dall’intelligente operazione di John Favreau, il quale nel suo remake di Il Libro della Giungla”, ha sfruttato la computer grafica per umanizzare gli animali protagonisti, che parlano ed esprimono emozioni in modo coinvolgente e intrigante, tanto da costituire la famiglia, o i nemici di Mowgli. Nello stesso film, il regista non rinuncia alle ombre di Shere Khan e dello stesso Mowgli, ma le enfatizza, come nel bellissimo scontro finale con la tigre, in mezzo alla foresta in fiamme, dando sostanza al cartone di partenza, ma anche al romanzo di Kipling, che indaga il conflitto tra l’umanità e la bestialità insita in ogni essere umano.

Ritornando a Dumbo di Tim Burton, siamo davvero dinnanzi ad uno dei film meno riusciti del regista, che si adagia su uno script troppo superficiale, visto e rivisto, non cogliendo i temi più importanti della pellicola di partenza.

Un passo falso, ben più grave, di “Alice in the Wonderland”, che pur non brillando nemmeno in quel caso per sceneggiatura, regalava quantomeno visivamente un mondo intrigante, eccentrico e visivamente più articolato. Qui, invece, non si riesce a comunicare il gusto del fantastico e lo stesso volo di Dumbo viene reso come un meccanismo da rodare, un’attrazione da perfezionare, piuttosto che uno spazio di libertà contro la sopraffazione che ha del meraviglioso proprio perché prima ritenuto impossibile. La stessa “piuma del coraggio”, quella di cui Dumbo, infine, non avrà più bisogno per volare, è ridotta ad un mero escamotage per il decollo. Un peccato, considerato che nel precedente film “Miss Peregrine” Burton sembrava aver recuperato il gusto per la fiaba girando comunque un buon film

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