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Pietro Barilla

Internet è il mio paese. Ecco la “dichiarazione dei diritti su Internet”

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La Presidenza della Camera ha presentato una bozza di 14 punti, redatta da una Commissione di 13 esperti e 10 parlamentari, intitolata ‘Dichiarazione dei Diritti su Internet’. E’ un elenco di molte contraddizioni come la difesa della trasparenza (Riconoscimento e garanzia dei diritti) e della non trasparenza (Anonimato, Diritto all’oblio, Diritto all’autodeterminazione informativa), come l’organizzazione sistemica (Sicurezza in rete, Inviolabilità dei sistemi e domicili informatici) e l’anarchia generalizzata (Criteri per il governo della rete, Diritto all’identità, Diritti e garanzie delle persone sulle piattaforme, Trattamenti automatizzati) e come l’investimento obbligatorio privato (Neutralità della rete, Tutela dei dati personali) e la gratuità dei servizi (Diritto di accesso, Diritto all’educazione). Il tema è di una complessità gigantesca poiché riguarda la tutela, il bilanciamento ed il controllo dei diritti e doveri morali, sociali, economici, politici, istituzionali, privatistici e pubblicistici nell’uso, divulgazione e fruizione della rete delle reti mondiali. Così complesso da sfuggire completamente allo jus cogens di ogni Stato singolo, in particolare di uno medio senza particolare ruolo sull’Internet mondiale.

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In realtà è finora sfuggito anche all’unica autorità, preposta al governo mondiale delle comunicazioni elettroniche e legittimata dai trattati internazionali, presente nelle Nazioni Unite, nota come Itu. L’obiettivo finale sarebbe “una mozione” da portare al governo, all’Europa e all’Onu. Fosse vero, sarebbe molto offensivo per governo, Europa ed Onu, cui la Dichiarazione infine si rivolge afferma implicitamente che nessuna di queste autorità sa governare Internet. Qualcuno dei componenti La Commissione, cui si deve la bozza, non pretende di riformare il sistema Internet, né ignora che a governarlo c’è una società privata, l’Icann, l’ente dei numeri e nomi. Si è solo inserita nelle critiche alla sorveglianza globale Usa, cresciute, tra le rivelazioni di Assange e Snowden, in molti paesi. Dalla Merkel al Bundestag tedesco, dal Consiglio di Stato francese al Consiglio d’Europa e alla Commissione del Parlamento francese sulla libertà nell’età digitale, i critici hanno facilmente collegato lo spionaggio con il controllo sostanziale esercitato dalla società tecnologica americana sulla rete delle reti. La norma brasiliana del Marco Civil, pensata, in un rigurgito anti yankee, per l’indipendenza dell’Internet nazionale ha offerto il destro alla presidente Boldrini ed al maitre Rodotà per lanciare una proposta, tutta istituzionale e professorale, di Internet occupato.

I capoversi sui diritti di cittadinanza in Internet e sulla costruzione di un governo Internet alternativo assomigliano alle campagne antimilitariste contro gli F35. Sono l’esibizionismo di un mero culturismo retorico che alza polveroni su battaglie identitarie da sinistra anticapitalista, nella consapevolezza che non verranno perseguite sul serio. Sulle varie nuances della sinistra, Internet infatti produce la più grande contraddizione. Scatena odio come suprema dimostrazione di liberismo, finanziarizzazione, deregolamentazione, riorganizzazione virtuale e non della logistica mondiale. Suscita anche però grande amore perché Internet è il sistema realmente andato più vicino all’antico ideale dell’estinzione dello Stato, delle sue regole e delle sue gerarchie. Lo slogan “Internet è il mio paese” non è un modo di dire. Nulla quanto il web sottrae potere agli Stati, inclusa la Casa Bianca e si basa sul consenso diretto di miliardi di persone cui chiede di fidarsi,non della democrazia, ma della competenza del blocco tecnologico di individui e società, orientati dal wishful thinking americano.

La popolazione di internet

Questo paese Internet è per popolazione il terzo al mondo. I suoi cittadini hanno tutte le libertà, tra cui l’indifferenza alla legalità, ma non hanno diritti, nemmeno costituzionali. In alternativa sono dotati di poteri di iniziativa, destinati però se non esercitati, a venir meno. Primo potere è capire che la tecnologia digitale sostituisce in ogni campo la cultura umanistica. Secondo, non preoccuparsi se le news muoiono sostituite dalle info, se le informazioni scompaiono sopraffatte dai dati, se le macchine fanno il lavoro delle persone. Terzo potere, la misura del consenso è un buon profitto. Quarto potere, nel paese di Internet le tasse sono poco accette. Quando ci sono, si dribblano. Se non si può, si regalano beni e servizi. Quasi tutta la politica italiana e gran parte della buroaccademia sono analogiche. Difendono il loro giornale, la loro Tv, il loro teatro, la loro squadra, il loro film, il loro libro, la loro lotteria, il loro pezzo di amministrazione pubblica, il mercato captive affidato all’impresa amica, esattamente come un tempo. Man mano che giornali, libri, film, lotterie ecc, vengono meno, soffocati, stravolti, ricomposti e teleguidati da remoto come droni digitali, la politica è quasi contenta per l’eliminazione di strumenti della concorrenza.

Così la Commissione nel parlare di diritti digitali, immagina veramente una sorta di assemblea pubblica, magari limitata ad alcuni ottimati rappresentativi delle scuole di pensiero. Immagina risorse infinite, tratte dalla tassazione mondiale, che sostengano i diritti, quelli giusti ed etici ed il pluralismo delle voci che meritano di esistere. Tra i membri dei redattori della dichiarazione ci sono direttori di giornali web, manager delle Telco, divulgatori del buon vangelo dell’Internet d’America, difensori dei consumatori. Anche se scelti secondo i gusti faziosamente politici della Presidente della camera, si tratta di persone autorevoli che conoscono bene l’evoluzione in corso. Cosa li frena dal ricordare la fondamentale venalità della rete? Dall’evidenziare che la forma mentis digitale affonda le sue radici nel varietà televisivo e nel fotoromanzo? Moltissimo. Ammettere la natura capitalista di Internet, con il suo carico di competizione, efficentamento, finanziarizzazione, non fa comodo a nessuno, soprattutto ai surfer dell’onda rivoluzionaria su poltrona baronale. Sarebbe come confessare che l’intero settore digitale è nemico del popolo. Altri, invece, negli anni hanno veramente interiorizzato l’identità tra causa giovanile, femminile, gay, legalitaria e l’innovazione digitale. Tra stupidità e fede, si sono autoconvinti che una massa di start up di apps siano un nuovo Quarto Stato, una massa di crescenti coralli, insignificanti senza le infrastrutture rocciose.

La Dichiarazione nasce così, come una tesi umanistica che voglia trattare di scienza in versi. Non nasce per diffondersi ma per ricordare ad una parte politica, la sinistra in tutte le sue forme, quali siano i termini del dibattito giusto sul tema Internet. E’ la presa di posizione di un gruppo che vuole proclamare agli altri ed a sé la propria esistenza. Infatti sono presenti con il bilancino i pesi di componente del Pd e degli alleati di centro e sinistra, a parte il doveroso invito a sparuti esponenti di altri partiti. Non siamo di fronte ad una legge in costruzione. Non siamo di fronte nemmeno alla presa di posizione di un gruppo politico di primaria (o secondaria) importanza. La bozza preparata non è legislativa. La Commissione che l’ha elaborata non è un organo istituzionale parlamentare. Nei fatti, la dichiarazione in oggetto è un report privato di un gruppo di studio. Se un deputato la proporrà come ordine del giorno anche se parlerà di commissione, di lavoro condiviso, di dichiarazione universale, nei fatti proporrà un suo testo individuale. A destra la reazione è stata di contestare l’esigenza della Dichiarazione, vuoi perché Internet, sinonimo di libertà, deve essere lasciato come è, vuoi perché non esistono in fondo differenze legislative tra il mondo materiale e quello virtuale che è il proseguo del primo con l’ausilio di supporti, apparati e trattamento dati. In realtà si potrebbero aggiungere alcune osservazioni.

E’ umiliante per le istituzioni che dirigenti politici centrali, periferici e laterali (come per le Authority e l’Agenzia Digitale) confessino l’impotenza dei loro eventi, partecipando ad un’ iniziativa che entra a gamba tesa nell’ ambito delle loro competenze. Può essere un’ammissione salutare. E’ vero poi che Internet e quindi il nocciolo dell’economia digitale sia sfuggito del tutto ai governi e ai parlamenti europei. Da ciò segue che per riprenderne il controllo, Italia ed Europa dovrebbero interrompere il libero scambio digitale, fermando di fatto il funzionamento planetario di Internet come la conosciamo. Sarebbe molto dannoso all’ ecomomia asio-americana come alla nostra. Proseguire però con l’attuale corso, unilateralmente spostato sul controllo Usa, mette l’economia digitale italiana ed europea su un piano di inferiorità. Di diritti Internet, soprattutto economici, quelli ignorati dalla Dichiarazione, bisognerebbe parlare. L’Europa digitale per costruire il suo mercato unico elettronico ha bisogno di un periodo di protezionismo difensivo. Perché oggi occupare l’anima vera di Internet, quella tecno, vale di più che occupare le fabbriche.

Giuseppe Mele

L'Autore

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