Sogni, promesse volano... Ma poi cosa accadrà?

Gianni Rodari

Letteratura. Così la scrittura peggiora tra acrobazie espressive inutili e trame a casaccio

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scritturaAprire un qualsiasi libro stampato negli ultimi anni significa tuffarsi fra inutili acrobazie espressive e trame che sembrano puzzle ricombinati a casaccio. Le traduzioni dalle altre lingue peggiorano prodotti già scadenti all’origine. Soprattutto, la conferma viene dall’esibizionismo di certo autorame che sopravvive per rendite di posizione a un’editoria in crisi da molto prima della crisi. Bisognerebbe fare dei nomi, ma sarebbero riduttivi. Perché addossare a singoli responsabilità di tendenza, di corrente, di epoca? Piuttosto, si può tentare di ricostruire la geografia della ritirata rovinosa che segna forse la fine irreversibile della Grande Letteratura. Senza ignorare il principio di Alfred Korzybski: «La mappa non è il territorio». L’individuazione dei modelli negativi non corrisponde necessariamente alla loro essenza reale, poiché dietro vi sono altri fattori, esterni alla letteratura, che si possono citare, stralciare ed enumerare, ma non sviscerare. In Italia, nessuno ha mai tentato un controprocesso al Gruppo ’63. Coloro che dichiararono a Palermo la morte del romanzo rimasero inquisitori autonominati e temuti. Al sicuro da ogni azione di contrasto. Gli “imputati”, ad esempio Giorgio Bassani e Carlo Cassola, mantennero un profilo troppo basso. Considerato che anche dopo la “condanna” scrissero libri ineguagliabili, destinati a segnare l’ultima fervida stagione della narrativa peninsulare, mentre iniziavano a proliferare gli scarabocchi. Oltre tutto, bastava rifarsi ad una legge della fisica, la freccia del tempo. Le avanguardie sono le prime a invecchiare. Lo si capì cinque anni dopo, nel 1968.

Tanta intellighenzia ne venne spiazzata. I “giovani” del ’63 erano già di mezza età rispetto alla gioventù studentesca. La quale, a sua volta, scimmiottava per le strade e per le piazze di Roma e di Milano il fiorire del maggio francese, ben più titanico e motivato. In Italia non c’era nessun gollismo da abbattere. Al contrario, i due partiti di massa, la chiesa bianca e la chiesa rossa, gareggiavano per accaparrarsi il monopolio della contestazione, anche nella cultura. Inefficacemente, dato che poi tutto precipitò negli anni di piombo. Intanto, si scriveva sempre peggio. Gli splendidi volumi della collana “La scala”, targati Rizzoli, divenivano baluardi assediati del raccontare autentico, privo di gergalità provvisorie. Michele Prisco, Renato Ghiotto, Raffaello Brignetti, Giovanni Arpino, Franco Cordero allineavano sugli scaffali monumenti in prosa assediati da tascabili di facile furto nelle librerie Feltrinelli. Umberto Eco una volta si dilettò con un elzeviro in cui stilava una classifica dei libri più appetibili per la generazione dell’esquimo, degli occhialini cerchiati, delle barbette e del patchouli. Le vittime, a migliaia, stavano tutte nel campo dei lettori. Chi cercava ancora di arieggiare il cervello con le parole dell’introiezione, della densità interiore o, al contrario, della vastità descrittiva, restava soffocato dal nulla pubblicato. Era un anticipo su carta del cinema minimalista attuale, fatto di appartamenti asfittici, di gravidanze complicate, di famiglie aperte, di gay tormentati dalla necessità dell’outing, di extracomunitari che coprono le quote di politicamente corretto. Allora, però, tra le fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, andava ancora peggio. Trionfava il “cioè”, la derivazione abboracciata della terminologia marxista “spalmata” sugli opuscoli, la coazione all’impegno. Impegno che finiva nelle camerette eleganti di giovani facoltosi, deliziati da impianti stereo e fumi di hashish. I francesi ci surclassavano, al solito. Al di là delle Alpi, uscivano dei romanzi che ancora oggi sono ristampati, maturava la personalità di Romain Gary, era attivissimo il belga Simenon, non si condannava Proust all’oblio. Eppure, covava un virus, quello strutturalista, che poi per mutazione avrebbe contagiato molti fuori dall’ambito narrativo.

Fino all’astrattismo lessicale e concettuale di Lacan e dei nuovi filosofi. Con loro, più che di arretramento della scrittura, se ne sarebbe visto il deragliamento nella completa sconnessione. Molto Lacanpeggio nell’incunabolo dell’Occidente, gli Stati Uniti d’America. Laggiù persiste un problema che ha nome e cognome: Ernest Hemingway. Malgrado l’editing di Max Perkins, il gigante barbuto dei tori, delle cacce grosse e del daiquiri reca il fardello di un corpus narrativo discutibilissimo e sopravvalutato. Se non sovraccaricato di cascami dalle traduzioni italiane. Hemingway, o del riduzionismo fraseologico. Un titolo per tutti, “Gli assassini”. Cos’è? Un noir, un frammento esistenziale? Un “Delitto e castigo” formato mignon? Si è accostato Hemingway a Dashiell Hammett, e ha sempre vinto l’autore del “Mistero del falco”. Salvo riconoscere dei demeriti anche alla “scuola dei duri”. Sono stati i suoi rappresentanti a trasporre nei dialoghi e nelle esposizioni un ritmo sincopato che l’americano parlato in realtà non possedeva. Certo, quei romanzi contengono un forza carismatica che manca a troppa narrativa non di genere. Ma hanno ancora contribuito all’impoverimento tematico e linguistico che oggi fa grandi dei veri imbrattacarte. Soprattutto perché fomentano l’imitazione di bamboccioni italioti saltati dall’acne all’andro e menopausa senza passare per la maturità. Ecco dunque la generazione dei quarantenni-cinquantenni, alla rincorsa degli esiziali giovani autori. Hanno per loro mito, fra gli altri, David Foster Wallace. Un accostatore di parole agli antipodi della professione narrativa, suicidatosi a quarantasei anni acquisendo la dignità del martire, come certe rockstar decedute anzitempo per droga, alcol o incidenti, dopo avere assordato e strimpellato nella colonna sonora di un’epoca la cui definizione perfetta resta quella di Oswald Spengler, il tramonto dell’occidente.

Enzo Verrengia

L'Autore

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