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Abraham Lincoln

Il Pasolini di Ferrara delude il pubblico e manca di verità

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Accolto freddamente dalla critica a Venezia, Pasolini di Abel Ferrara, continua a seminare gelo anche nelle sale cinematografiche. L’Abel Ferrara de “Il cattivo tenente” è ormai solo un opaco ricordo. Il film è vuoto, scarno e privo di giustizia sia dal punto di vista narrativo che rappresentativo, ha una pretesa biografica che non riesce a reggere. L’inizio è dei peggiori: dopo una scena tratta da Salò, William Dafoe reinterpreta l’ultima intervista video di Pasolini rilasciata in Francia il 31 ottobre 1975. Male. Non per Dafoe quanto per il fatto che non le viene data alcuna profondità interpretativa. L’immagine è quella di un uomo “travestito” da Pasolini che recita qualcosa che non gli appartiene, in cui non crede. Successivamente salta a Petrolio, anche qui accade la stessa cosa: una voce, quella di Dafoe, legge la lettera scritta da Pasolini a Moravia, allegata nelle note di Petrolio. Nessun materiale nuovo e, purtroppo, Dafoe non regge il confronto con l’originale e nemmeno pare rievocarlo. Ferrara fa errori banali, e se rivisita lo fa senza che questo ai fini della storia sia funzionale.

Accade per esempio durante la sua ultima intervista rilasciata a Furio Colombo, rimasta incompleta a causa del suo assassinio. Ferrara lascia passare la scelta del titolo “E’ perchè siamo tutti in pericolo” come qualcosa di inspiegabile per lo spettatore e l’errore fondamentale che commette è che è sì Pasolini in realtà a suggerire a Colombo quel titolo ma non lo fa di sua spontanea volontà, accade invece che è Colombo a chiedergli un titolo, per Pasolini non sembra importante anche se al termine dell’intervista accade qualcosa ed è in quel preciso istante che glielo suggerisce. L’importanza del fatto sta in un dettaglio fondamentale che Ferrara sembra ignorare: Pasolini conclude l’intervista perchè è tardi, deve uscire, gli dice che la completerà il giorno seguente. Gli impegni di quella sera del poeta di Casarsa sono due, una cena con Ninetto Davoli, che riporta fedelmente, e un altro appuntamento, quello con Pino Pelosi, con cui sarebbe andato a recuperare all’Idroscalo alcune bobine di Salò, o le 120 giornate di Sodoma, rubate nell’agosto del ’75 dagli stabilimenti della Tecnicolor, ed è proprio quell’appuntamento a portarlo alla morte. Il fatto è reale, non solo è stato raccontato più volte da Pino Pelosi, anche all’interno del suo ultimo libro “Io so come hanno ucciso P.P.P.”, ma anche da Sergio Citti collega e amico del poeta che nel 2005 dichiarò all’avvocato Guido Calvi (anche avv. di parte civile nel processo del ’75) di sapere con certezza che quella sera Pasolini si sarebbe incontrato con chi gli avrebbe restituito le bobine del film.

E il problema reale non è che ignori questa storia, di cui ha deliberatamente deciso di non occuparsi continuando ad alimentare il caos che da 39 anni gira intorno alla vicenda dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini, quanto più che Ferrara stesso aveva dichiarato al settimanale “Oggi” di sapere chi avesse ucciso il poeta. Non solo non ne ha idea, così come appare lampante alla fine del film, in cui Pasolini viene aggredito da tre ragazzetti e investito dall’auto da Pino Pelosi, non si capisce se per sbaglio oppure no, ma pretende che vi si rintracci una linea di verità inesistente. Perchè la tesi di Ferrara su quel delitto assomiglia solo, tristemente, alla sentenza del 1979 che vide condannato Pino Pelosi a 9 anni e 7 mesi per omicidio volontario in concorso con ignoti (ignoti che poi scomparvero nella sentenza di Cassazione). In più decide di non approfondire nemmeno il personaggio di Pelosi e il suo rapporto con Pasolini, scelta legittima ma poco efficace ai fini della storia.

In sostanza il vero problema è che il suo è un film per nessuno: chi conosce a fondo la storia di Pier Paolo Pasolini ne rimane annoiato, sconcertato e deluso, chi non conosce la storia ne resta confuso e fa fatica a comprenderne il senso, che resta poco chiaro comunque anche per i filopasoliniani. Ma le scelte sbagliate non riguardano solo il personaggio di Pasolini e la sua morte, su cui in un secondo momento, in occasione della Mostra Cinematografica del Cinema di Venezia, Ferrara aveva dichiarato non solo di non saperne molto, come invece era stato annunciato su “Oggi”, ma che non se ne sarebbe occupato, probabilmente incalzato da chi lo aveva invitato a rivolgersi alla magistratura nel caso fosse a conoscenza dei suoi reali assassini. Ferrara travisa e tradisce anche la sua poetica. Risulta evidente nella rappresentazione dell’ultimo film scritto da Pasolini, e mai girato, Porno Teo Kolossal (ripreso in parte ne I magi randagi di Sergio Citti) i cui ruoli da protagonista sarebbero stati affidati a Eduardo De Filippo e a Ninetto Davoli. E’ proprio Ninetto a interpretare il ruolo di Eduardo, scelta azzardata e monotonamente sbagliata. Davoli non solo non regge il confronto ma snatura brutalmente il personaggio, non ha né la grazia né l’altezza di Eduardo. Il ruolo di Ninetto è invece affidato a Scamarcio che è poco credibile ma non il danno peggiore. La scelta linguistica è tutta da chiarire: Ninetto (Eduardo parla in dialetto romanesco) e Scamarcio (Ninetto) in napoletano. Ferrara sembra non comprendere quello che sarebbe dovuto essere il senso di Porno Teo Kolossal, o se lo comprende, preferisce reinterpretarlo per dare allo spettatore la sua versione. Perché del Pasolini che abbiamo imparato a conoscere non ce n’è alcuna traccia. Tutto avviene al di là di ogni sentimento o emotività, Dafoe non riesce a rievocare Pasolini. Ne rende piuttosto tangibile e straziante l’assenza. Incolmabile.

Martina Di Matteo

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