Ecco qual è il problema del futuro:
quando lo guardi cambia perché lo hai guardato.

Lee Tamahori

Per il Gran Muftì Assad meriterebbe il Nobel per la Pace

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Terza parte del reportage di Elena Barlozzari, volontaria della Onlus Sol.id e giornalista, dalla Siria. L’appuntamento, questa volta, è con la massima autorità religiosa siriana.

Alikbharia, Sana e almeno altre quattro emittenti televisive di cui non riesco a distinguere i nomi sono asserragliate nel salotto del Muftì con la loro attrezzatura ingombrante. Dividiamo così, a fatica, lo spazio dove veniamo ricevuti. Tappeti, lampadari, divani foderati con stoffa pregiata e cristalleria. Tutti attenti a non perdere nemmeno una delle parole che la massima autorità religiosa siriana pronuncia, accompagnandole con gesti pieni di garbo. Ahmad Badreddin Hassou ha 65 anni, dal 2005 è il Gran Muftì di Siria. E’ un uomo alto ha il viso sorridente incorniciato dalla barba scura e il turbante candido. La sua carica è apicale: il Gran Muftì è la massima autorità religiosa dei sunniti di Siria. Il suo atteggiamento ospitale e il modo placido di parlare ci mettono, per quanto possibile, a nostro agio.

Il Muftì è un uomo di pace. Lo dimostra la tenerezza, senza smancerie, che esprime con la parola. Quella stessa tenerezza con cui – più di un anno fa – rivolse a papa Francesco un invito. L’invito a venire in Siria. Il Paese in cui le religioni stanno dando al mondo una lezione di tolleranza senza precedenti, contribuendo insieme alla ricostruzione. “Gli uomini di religione, sin dal primo momento, si sono soffermati insieme alla gente per bloccare questa guerra. A Tartus ci sono chiese e moschee che accolgono i profughi interni, senza distinzioni di fede, e questo ha rafforzato il legame fra i siriani”, racconta.

Gran Muftì

Foto di Mauro Consilvio, diritti riservati. (http://mauroconsilvio.photoshelter.com/index)

Il Muftì è un uomo di pace. Anche Obama, per la commissione di Oslo che nel 2009 gli assegnò il premio Nobel per la pace a meno di un anno dall’insediamento alla Casa Bianca, lo era. Quando l’America elesse il suo primo presidente afroamericano, il Muftì predicava. Se lo ricorda bene. “Saluto il popolo americano che ha nominato un presidente africano, con un padre musulmano”, ci racconta d’aver detto. “Gli americani lo hanno votato senza guardare la religione, il fatto che fosse africano nero e credendo che volesse la pace – prosegue il Muftì – quel giorno augurai ad Obama di essere all’altezza delle aspettative del suo popolo”. Un attimo di silenzio, poi: “Mi rattrista ma così non è stato”. Il Muftì adesso esordisce, spiazzandoci. “Se il premio Nobel fosse davvero un premio per la pace andrebbe dato ad Assad, perché ha rifiutato di partecipare alla guerra in Iraq, ha fatto tornare la pace in Libano e da tre anni e mezzo combatte il terrorismo insieme al suo popolo. E se la coalizione internazionale concordasse con noi le operazioni militari in cinque mesi garantiremmo la caduta definitiva del terrorismo non solo in Siria ma in tutta l’Europa”.

Il Muftì non ha dubbi. Ha perdonato gli assassini di suo figlio, freddato per vendetta ad Aleppo, ma il suo dito punta senza indulgenza dritto all’America. Quella di Barack Obama e di George Bush. A partire dalla guerra in Afghanistan, fino a quella in Siria. “La guerra non è iniziata tre anni fa, ma il giorno in cui è cominciata in Afghanistan. Hanno usato il popolo musulmano afghano come vittima in una lotta non per l’uomo ma per le risorse; i talebani sono creature degli americani, hanno imparato a combattere e uccidere nelle loro scuole. Bin Laden è stato addestrato negli Usa e la sua famiglia è la più vicina agli Stati Uniti d’America”.

Dopo l’Afghanistan “la guerra si è spostata in Libano, suddiviso per otto anni in quattro stati: maronita, sunnita, sciita, druso. Noi siamo entrati in Libano, abbiamo annullato questi quattro stati e riportato l’unità”. Anche la guerra in Iraq, racconta il Muftì, “l’abbiamo voluta spegnere con tutte le forze a disposizione, quando l’America ci ha chiesto di partecipare, il nostro presidente ha rifiutato”. In quell’occasione, ricorda, il presidente Assad disse: “Le guerre non liberano i popoli, ciò che li libera è la pace e la prosperità”. Tre, forse cinque minuti d’agonia, per l’ex raìs. Saddam Hussein è stato impiccato nel 2006, sono passati otto anni da quel giorno e “guardate cos’è l’Iraq oggi, una polveriera”. Il Muftì è un uomo di pace, oggi costretto a far i conti con la guerra.

Elena Barlozzari

 

Leggi la prima e la seconda parte del reportage

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