Sogni, promesse volano... Ma poi cosa accadrà?

Gianni Rodari

Riforma della giustizia per non perdere le occasioni della tecnologia

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La tecnologia può fare più di una riforma. Può essere questa la chiave per riuscire a scardinare quel castello di procedimenti che è diventata la giustizia italiana, per aggirare la battaglia ideologica tra avvocati e magistrati, tra destra e sinistra, garantisti estremi e giustizialisti ortodossi che ha, finora, trasformato la riforma della giustizia in un campo minato sul quale sono saltati diversi governi e politici navigati? Può essere questa la strada per superare quel fronte sul quale si è combattuta una guerra di trincea che ha finito con il demolire la certezza del diritto bloccando, di fatto, lo sviluppo civile e la crescita economica di un intero Paese? Del resto, la giustizia può essere vista come la produzione ed erogazione di un servizio ad alto contenuto informativo. Per migliorarne le prestazioni occorre che le informazioni – convocazioni, sentenze, raccolta di testimonianze – vengano recepite e trasmesse quanto più possibilmente in maniera virtuale; ordinate in banca dati che ne consentano l’accesso veloce; analizzate sistematicamente attraverso sistemi esperti che ne suggeriscano l’interpretazione. Ed è, dunque, evidente che Internet che ha l’effetto, appunto, di ridurre drasticamente il costo unitario di recezione, elaborazione, trasmissione può offrire opportunità di miglioramento radicale. Ed è, altrettanto, ovvio che ciò è particolarmente importante in Italia, un Paese che per numero di giornate necessarie per avere giustizia è agli ultimi posti nel mondo, e che paga, appunto, questo dato con una capacità di attrazione investimenti esteri bassa. Ciò vale per le aule dei tribunali, ma anche, più complessivamente, per l’intero macchina della giustizia fino a comprendere la stessa polizia. Il governo Renzi, in particolar modo, potrebbe usare questa chiave organizzativa per trovare un approccio alla riforma della giustizia innovativo, in grado di superare la palude nella quale è bloccato qualsiasi tentativo seriamente riformatore da tempo.

A volte, le innovazioni possibili sono sorprendentemente banali, ma ancora più sorprendentemente non sono state ancora realizzate anche se ciascuna di essa sembra poter fare il miracolo di far risparmiare lo Stato e, allo stesso tempo, migliorare il servizio. Come è possibile che dopo aver introdotto per legge l’idea del domicilio elettronico (laddove non era, neppure, necessario aspettare la posta elettronica certificata per dare a chiunque ne facesse richiesta la possibilità di avere tutte le corrispondenze relative ai suoi rapporti con le amministrazioni pubbliche sul proprio indirizzo di posta elettronica), questa modesta innovazione non è ancora operativa, laddove che si stima che un terzo del tempo di somministrazione della giustizia tributaria è consumata da questioni relative alla correttezza delle notifiche delle cartelle? Come è possibile che, vista la congestione dei tribunali non si sia già prevista per tutti la possibilità di acquisire testimonianze attraverso la rete (facendo, eventualmente, esclusione per crimini particolarmente gravi)? Come mai è ancora obbligatorio recarsi dai carabinieri per fare una denuncia, anche per lo smarrimento di un bancomat, laddove rendere meno costoso dare informazioni alle forze dell’ordine farebbe risparmiare soldi e aumentare le informazioni che sono materia prima di una qualsiasi attività investigativa? Come mai non abbiamo ancora creato una banca dati dei lavori pubblici che indica i costi per chilometro e i tempi di costruzione in maniera tale da rilevare preventivamente le anomalie e fermare la corruzione prima ancora di avviare indagini complicate? A che serve ancora la patente se i documenti cartacei possono essere ovviamente non aggiornati e un vigile deve, comunque, verificare ai terminali se l’automobilista che ha fermato era in condizione di poter circolare?

Nulla di ciò – se non per sperimentazioni locali – sta succedendo. E, anche, sulla riorganizzazione dei tribunali, abbiamo alcune esperienze interessanti – quella dei tribunali di Torino o di Monza – nello smaltimento del contenzioso, ma sono rondini che non fanno primavera. I finanziamenti europei stanno, persino, finanziando interventi sostanziali nella digitalizzazione e riorganizzazione dei tribunali, eppure nonostante il contributo ad aumentare il fatturato delle società di consulenza che hanno curato tali interventi, nessuno ancora si è posto il problema di verificare i risultati di questi interventi, in maniera da “riusare” quelli che hanno funzionato. La riforma della giustizia, procede, intanto, ancora seguendo metodi tradizionali: a colpi di leggi che rischiano – come spesso succede ai cambiamenti imposti dall’alto – di assomigliare alle solite montagne che partoriscono ridicoli topolini (e creano esse stesse ulteriore contenzioso nei tribunali per interpretare cosa volesse davvero dire il legislatore). La tecnologia poteva fare tantissimo e, tuttavia, ad osservare i metodi di lavoro dei giudici e degli avvocati, essi sembrano ancora assomigliare a quelli di un’epoca precedente non solo al computer, ma persino al telefono.

Aveva ragione – almeno in questo – Di Pietro quando insisteva nell’informatizzazione dei processi, e, tuttavia, essa è destinata ad avere effetti marginali, se una organizzazione non può modificarsi, sperimentare altre soluzioni. Purtroppo, la costituzione italiana nega, di fatto, che la magistratura possa essere anche solo considerata un’organizzazione, laddove l’articolo 107 chiarisce che sono i singoli magistrati gli erogatori di giustizia. Se ciò non cambia, non tanto attraverso una modifica di un articolo così fondamentale, ma nella cultura degli operatori, sarà difficile uscire dalla crisi. Avere più informazioni – questo vale per tutti, dalla polizia alla magistratura – significa modificare, continuamente, la distribuzione dei propri organici, le agende delle proprie giornate sulla base delle priorità che le informazioni indicano. Avere più informazioni significa anche che diventa più naturale darsi obiettivi, controllarne il conseguimento, premiare chi ottiene risultati. C’è la tecnologia ma non c’è ancora la consapevolezza della profondità del cambiamento che l’innovazione esige. Ed è compito principale di un soggetto come il nuovo direttore dell’Agenzia Digitale colmare questo vuoto. Se non ci riuscisse, se non ci riusciamo, rischiamo di perdere un’occasione e il governo che avrebbe dovuto superare le ideologie, rischia di ritrovarsi a fare i conti con quelle che hanno bloccato sul fronte giustizia un intero Paese per vent’anni.

Francesco Grillo

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