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Torna Rischiatutto, il trionfo del quiz 2.0 come selezione darwiniana

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rischiatuttoDopo la ripresa di “Carosello”, torna “Rischiatutto”. Ricomincia a febbraio, il giovedì, come l’edizione originale, in prima serata su RAI 3, condotto da Fabio Fazio. Altri format vanno in crisi, ma il quiz, con il meccanismo di selezione darwiniana, resiste. Il sapere sul filo dei minuti. Anzi, dei secondi. Scanditi da un cronometro implacabile nella sua meccanica finalizzata ad un limite che non concede scampo. Nessun margine di dubbio. Esclusa la discussione, l’indeterminatezza, la dialettica. Una sola risposta possibile. Quella giusta. Tutte le altre sono sbagliate. Vincere o perdere. Molti soldi. Di quelli che fanno la differenza per una vita comune. Ecco la dinamica autoritaria, selettiva, darwiniana, del quiz. Prendere o lasciare. Lascia o raddoppia? Dietro i sorrisi, la condiscendenza e le battute del “presentatore” si annida il Moloch dell’economia occidentale, che dietro la promessa dell’arricchimento occulta il pericolo del restare a mani vuote. Il concorrente deve accettare di entrare in un circuito dal quale vi sono due vie di uscita e non altre. Al contrario del gatto di Schrödinger, contemporaneamente vivo e morto nella scatola radioattiva, lui si accaparra il premio oppure no. Angariato da una sorta di demone giocondo che sorveglia quest’inferno trasmesso dapprima alla radio, poi alla televisione. Mike Bongiorno lo incarnò per oltre mezzo secolo. Tanto da guadagnarsi lo status di icona semiologica. Su di lui Umberto Eco scrisse il più proverbiale e ricorrente dei saggi raccolti nel “Diario minimo”, la “Fenomenologia di Mike Bongiorno”: «Idolatrato da milioni di persone, quest’uomo deve il suo successo al fatto che in ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere traspare una mediocrità assoluta…» “Lascia o raddoppia” costringeva gli esercenti, il giovedì sera, ad attrezzare le sale con apparecchi televisivi in sostituzione delle pellicole programmate. Gli spettatori preferivano identificarsi nelle tribolazioni del “concorrente” anziché nei protagonisti di tipiche vicende immaginarie.

L’incentivo era la posta in gioco, dinanzi alla quale la mediocrità dell’uomo comune trovava finalmente uno scopo. Ancora Umberto Eco: «L’ammirazione per la cultura tuttavia sopraggiunge quando, in base alla cultura, si viene a guadagnar denaro. Allora si scopre che la cultura serve a qualcosa. L’uomo mediocre rifiuta di imparare ma si propone di far studiare il figlio». Il tutto, poi, sembra violare anche la curva emotiva della tragedia greca: «Mike Bongiorno gioisce sinceramente col vincitore perché onora il successo. Cortesemente disinteressato al perdente, si commuove se questi versa in gravi condizioni e si fa promotore di una gara di beneficenza, finita la quale si manifesta pago e ne convince il pubblico; indi trasvola ad altre cure confortato sull’esistenza del migliore dei mondi possibili. Egli ignora la dimensione tragica della vita». Il saggio di Eco, dunque, aggiorna il repertorio interpretativo della semiotica ad una contemporaneità postmoderna ormai sviscerata da Roland Barthes nel suo “Miti d’oggi”. Il retaggio del quiz, infatti, sta nelle costanti dell’interazione umana con la realtà. E a dimostrarlo c’è l’attenzione che vi posero i pionieri della radio e della televisione nel Paese che più di ogni altro costituisce un laboratorio permanente dei paradigmi sociali, gli Stati Uniti d’America. Lì l’espressione “game show” acquisisce il valore di un passaggio ineludibile della programmazione. Di più, il quiz esordisce con le stesse trasmissioni TV, nel 1938, addirittura. “Spelling Bee” (ape parlante) è il titolo di una gara con le domande nell’ambito di uno spazio pubblicitario. Più tardi, seguiranno il classico “La domanda da 64.000 dollari” e “Jeopardy”, che significa “rischio”, il cui format divenne quello di “Lascia o raddoppia” e “Rischiatutto”. Del resto, Bongiorno in America ci era nato e conosceva benissimo il funzionamento dei media sull’altra riva dell’Atlantico.

Non bisogna comunque assimilare del tutto la sua figura alla storia, all’articolazione ed alla consuetudine del quiz. Il quale ha una propria autonomia pervasiva che non necessita di alfieri specifici.rischiatutto Prima, durante e dopo Mike Bongiorno, la risposta che fa vincere un malloppo è radicata nell’antropologia. Anche al di fuori dell’occidente, come hanno assoldato quanti si sono commossi vedendo “The Millionaire”, il film del 2008 diretto da Danny Boyle e Loveleen Tandan, dove un adolescente di Mumbai snoda il suo travagliato percorso esistenziale a partire dalle vincite di un popolare gioco a premi televisivo. Il sospetto di imbrogli, che sta alla base della storia, lo si ritrova in un altro dramma cinematografico sul tema, “Quiz Show”, del 1994, con la regia di Robert Redford e l’interpretazione di John Turturro. Si tratta della perfetta ricostruzione di uno scandalo avvenuto negli anni ’50, l’età dell’oro per i quiz americani. Charles Van Doren vince su Herb Stempel nel popolare gioco “Twenty One”. Ne scaturisce un’inchiesta del Congresso guidata da Richard Goodwin che fu uno dei produttori del film. Nello stesso periodo l’Italia era molto diversa dagli Stati Uniti. La guerra appena terminata lasciava una penisola disseminata di macerie, che aveva bisogno di eroi per la ricostruzione. O meglio di speranza. Come quella di fare soldi con la semplice risposta a una domanda. Perciò tutti avrebbero voluto calarsi dei panni del professor Gianluigi Marianini, lo storico campione di “Lascia o raddoppia”. La sua barbetta, peraltro, ha resistito nell’iconografia televisiva fino agli anni ’90, quando venne ripescato dal suo concittadino torinese Piero Chiambretti. Marianini accorpava in quella infallibile preparazione sul campo della moda il sogno italiano di guadagnar sapendo. Due decadi dopo, gli anni ’70, infestati dal terrorismo, dalle stragi, dai complotti geopolitici della Guerra Fredda. All’Italia occorre una nuova ricostruzione, quella civile. Eppure la gente comune, ancora più barricata nelle case davanti alla televisione, insegue e persegue lo stesso disegno: dare la risposta magica da cui deriva la ricchezza.

Mike Bongiorno conduce “Rischiatutto”, che lascia fuori ogni accenno di crisi sociale, di emancipazione, di cambiamento, tranne forse le minigonne della valletta Sabina Ciuffini, la quale, al contrario di Edy Campagnoli, parla e alle volte ironizza sul presentatore. Ma, di nuovo, per il pubblico gli eroi sono i concorrenti: Giuliana Longari, Andrea Fabbricatore, Massimo Inardi, Gianfranco Rolfi. Una galleria che nelle memorie catodiche di quella generazione oscura i governi instabilissimi, le foto segnaletiche dei brigatisti rossi, le gambizzazioni. Ci vorrà quel Moro sotto lo stendardo dei terroristi a sovrapporre la consapevolezza del disastro sull’illusione della vincita televisiva. Da “Lascia o raddoppia” a “Rischiatutto”, poi, l’epopea del quiz si era arricchita di altri comprimari. Primo fra tutti, il Mario Riva de “Il musichiere”, quiz canoro che anticipa l’exploit di “Settevoci”, da cui emerge il titano Pippo Baudo. In successione, l’Enzo Tortora, il Silvio Noto e il Renato Tagliani di “Telematch”, il Febo Conti di “Chissà chi lo sa?”. Tutti insieme a comporre un plotone d’assalto di quella guerra delle domande per le quali ogni risposta significava felicità o dannazione per i partecipanti. L’avvento degli anni ’80 e dell’edonismo reaganiano in Italia viene codificato nelle reti commerciali di Berlusconi. Mike Bongiorno passa all’allora Fininvest senza perdere fedelissimi. Ma la TV commerciale ne moltiplica le clonazioni. Con “Colpo grosso”, Umberto Smaila coniuga quiz e spogliarello. “OK il prezzo è giusto” rende Iva Zanicchi una venere della maturità. Indimenticabili gli albanesi de “Lamerica”, il film di Gianni Amelio del 1994, che in un bar guardano rapiti l’Aquila di Ligonchio che snocciola amenità con l’accento romagnolo rivolte ai concorrenti del programma di culto.

monoscopio_raiAnche oggi che il quiz viene frammentato nei preserali, l’Italia vi si raduna con immutato rapimento. La recessione, le fabbriche in chiusura, la precarizzazione del lavoro, la caduta forse irreversibile di un modello di sviluppo non intaccano, semmai esaltano, l’aspettativa di vittoria che si traduce in denaro. L’avvilimento dell’acculturazione ad ulteriore strumento di approccio al benessere.  Ma c’è una differenza che non può sfuggire. Nei grandi numeri si perdono le cifre singole. I concorrenti non sono più mitici. Moltiplicati dall’offerta incessante e quotidiana, è impossibile ricordarne i volti, i vezzi, le peculiarità, perfino i tratti somatici. Si avvera anche per ciascuno di loro la profezia di Andy Warhol sulla fama di quindici minuti a disposizione di chiunque nell’era della televisione pervasiva. Non esiste una settimana dopo chi ha vinto 500 mila Euro ad “Affari tuoi”. Il giorno successivo, una tale vittoria è già obsoleta. Nessuna signora bionda e fascinosa, magari un po’ o molto scosciata, regge le fantasie maschili per più dei 45 minuti che precedono e seguono il telegiornale. Al punto che sorprende scoprire i trascorsi da concorrenti di alcune personalità in seguito determinanti nell’agone politico nazionale, nientemeno che i due Matteo, Renzi e Salvini. Almeno per loro, anche nell’offerta allargata di quiz, la notorietà sta durando più di 15 minuti.

Enzo Verrengia

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