La mutilazione per cui la vita perdette quello che non ebbe mai,
il futuro, rende la vita più semplice,
ma anche tanto priva di senso.

Italo Svevo

Terzo mondo, innovazione e le occasioni mancate dall’Occidente

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Come si stanno forse accorgendo i non pochi turisti italiani che decidono di trascorre le vacanze né in Italia e neppure a Formentera, c’è un fenomeno importante che sta succedendo nel Sud del pianeta: il terzo mondo sta scomparendo. O meglio, sta scomparendo la nozione di terzo mondo alla quale ci hanno abituato le immagini della televisione e la retorica dei concerti del Live Aid.  Tuttavia, ciò non significa che i problemi in Africa, Asia, America del Sud siano finiti. Semmai se ne sta trasformando la natura e ciò richiede un profondo ripensamento dell’approccio che l’Occidente ha nei confronti della povertà globale. Dall’idea della “carità” si dovrebbe passare a quella della fornitura di tecnologie, esperienza, conoscenza degli errori che in Occidente hanno accompagnato l’industrializzazione del secolo scorso. In questo senso, lo sviluppo dei Paesi emergenti è un’opportunità di innovazione di portata storica, ma l’Europa ed in particolar modo l’Italia la stanno malamente perdendo.


Il terzo mondo sta sparendo

Che il terzo mondo stia sparendo, anche se ne resistono, in Africa soprattutto, larghe, dolorose rappresentazioni, lo dicono i numeri delle Nazioni Unite. Nel 1990 l’Onu si pose l’obiettivo del “millennio”: portare dal 50 al 25% la percentuale di individui nei paesi in via di sviluppo che vivono in condizioni di povertà estrema (meno di un dollaro al giorno) entro il 2015. Già nel 2010, con cinque anni di anticipo, quella percentuale risulta ridotta al 22% e – rispetto al 1990 – ciò significa che ci sono 700 milioni di diseredati assoluti in meno. Progressi simili sono stati fatti sul fronte del numero di persone che risultano denutrite, lontane dalla più vicina fonte d’acqua, di bambini che muoiono prematuramente o che non frequentano la scuola elementare; persino in Africa il numero delle persone esposte alla fame si è ridotta da un terzo ad un quarto della popolazione, questo significa aver strappato alla carestia quasi cento milioni di individui; nel frattempo centinaia di milioni di persone – in Cina, in India, Nigeria e Sud Africa – sono diventati classe media.

Le distanze si accorciano

Basta  essere abituati a viaggiare nei luoghi che sono tra le prime destinazioni degli italiani dell’Italia in crisi – Indonesia, Tanzania, Nepal, Vietnam, Marocco – per accorgersi che (anno dopo anno) le distanze tra loro e noi si stanno accorciando: diminuiscono le destinazioni per le quali sono richieste vaccinazioni obbligatorie; è aumentata di molto l’igiene dei cibi (anche se molte delle megalopoli rimangono senza un vero e proprio servizio di smaltimento dei rifiuti); sempre di più sono quelli che possono avventurarsi senza viaggi organizzati. Del resto, mentre negli ultimi vent’anni un Paese come l’Italia è rimasto praticamente fermo, il resto del mondo (soprattutto quello “emergente”) ha conosciuto il più straordinario periodo di crescita della storia. Ed a strappare centinaia di milioni di persone dalla fame sono state non i concerti degli U2 – pur necessari e bellissimi – o le adozioni a distanza o la macchina delle agenzie delle Nazioni Unite, ma la forza potente della globalizzazione del commercio mondiale che è tanto invisa alla sinistra europea.

Ma i problemi per il Sud del mondo non sono finiti. Se ne è trasformata la natura.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità la differenza in termini di speranza di vita media in un Paese come il Nepal (60 anni) rispetto ad uno come l’Italia (80) è per due terzi dovuta, ormai, all’inquinamento. Ne uccidono più le emissioni, quelle tradizionali di catrame o polvere sottili ancora più delle emissioni di anidride carbonica, che la carestia. Del resto, in Cina la primissima causa di insoddisfazione della popolazione nei confronti del Governo non è la povertà delle regioni rurali – spesso brutalmente repressa dalla polizia – ma il pessimo stato dell’aria e dell’acqua nelle megalopoli che rischia di far saltare la pace sociale. Ancora una volta, basta provare a percorrere i leggendari trecento chilometri che separano Kathmandu dall’ Annapurna per accorgersi che i Paesi emergenti stanno emergendo usando, semplicemente, le stesse traiettorie di sviluppo che hanno utilizzato l’Europa e l’America cinquanta anni fa. Le strade preferite alle ferrovie. Automobili, camion e affollatissimi bus che lasciano sinistre nuvole di smog nero e che in Europa da decenni non possono più circolare. Con danni enormi ad un patrimonio naturale che dovrebbe essere una delle grandi risorse di questi Paesi e, soprattutto, ai bambini che sono particolarmente esposti agli scarichi.

Opportunità di innovazione perse

Eppure, sarebbe bastato poco. Sarebbe bastato avvertire, consigliare i cinesi, ad esempio, sui pericoli di uno sviluppo tutto basato sul carbon fossile (per la verità in Cina hanno fatto anche investimenti poderosi sulle metropolitane e sull’alta velocità, ma ciò non ha impedito che la rapidità della diffusione delle automobili producesse un enorme ingorgo). Sarebbe stato sufficiente provare a costruire insieme una vera e propria industria automobilistica elettrica che sfruttando i grandi numeri e le economie di scala avrebbe potuto superare gli svantaggi di costo che l’elettrico ancora ha nei confronti del motore a scoppio. Nei paesi emergenti poteva essere reinventato il modello stesso di burocrazia, sfruttando le minori resistenze che gli apparati consolidati pongono ed il fatto che almeno in termini di diffusione di telefoni cellulari non c’è più alcun divario. Invece lo sviluppo sta seguendo in Asia processi simili a quelli che ha avuto in Europa con enormi danni ambientali e opportunità di innovazione che stiamo perdendo tutti (del resto i veicoli che circolano in Asia sono solo in piccolissima parte europei).

È mancata in questi anni, quasi completamente, una strategia. Ci sono stati migliaia di miliardi di investimenti ma siamo andati avanti come se i problemi dello sviluppo fossero ancora quelli di quindici anni fa. Abbiamo perso – soprattutto come Europa – un’occasione per essere utili agli altri e a noi stessi. Perché certe innovazioni potevano tornarci utili per trasformare anche il modo in cui noi concepiamo e organizziamo mobilità, sanità, educazione.

 

Francesco Grillo

L'Autore

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