Il futuro entra in noi, per trasformarsi in noi,
molto prima che accada.

Rainer Maria Rilke

Watergate (I parte). L’inchiesta che cambiò il futuro degli Usa

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nixonIl 9 agosto 1974 le dimissioni di Richard Nixon chiudevano il sipario su una pantomima cospiratoria tipica degli Stati Uniti. Ormai i giudizi non si misurano più lungo l’asse dei secoli. Quella contemporanea è instant history, come la definì Philip Howard sul Times. Per comprendere appieno gli effetti di quella fallita effrazione, la notte del 17 giugno 1972, bisognerebbe inventare una nuova scienza: la psicanalisi poli­tica. Solo un’ indagine nel profondo della società americana può portare alla luce le ragioni di un cataclisma istituzionale più intricato delle affabula­zioni che ne ha ricavato la letteratura, il cinema e la Tv.Nel 1832, Alexis de Toqueville scriveva nel suo Viaggio negli Stati Uniti: «È penoso vedere che grossolane offese, che meschine maldicenze e che imprudenti calunnie riem­piano le pagine dei giornali.» Ma quelle sulla Casa Bianca di Nixon non erano nè «grossolane offese» nè «meschine maldicenze». La campagna rimbalzata dalle colonne della Washington Post a quelle del New York Times, del Los Angeles Times e di tutti i mezzi d’informazione era l’incredulità, lo sgomento e l’indignazione di un Paese che aveva confidato nel suo Presidente fino a rin­no­vargli il mandato con il 61 per cento dei voti. Fu questa la stupefacente mi­sura della vittoria di Nixon nelle elezioni del 7 novembre 1972, quando già si al­lungavano nella sua direzione le prime ombre del Watergate.

La verità che de­vastò la coscienza di tutti

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Bob Woodward e Carl Bernstein. Redazione del Washington Post

La verità de­vastò la coscienza di tutti. E la rimozione per impeachment del colpevole somigliò più a un parricidio che a un regicidio. Alla fine non rimasero che frammenti di un’America esplosa, o implosa, sparsi su tutta la superficie del pianeta. Gli effetti del Watergate riguardarono infatti l’intero equilibrio geopolitico. Il crollo della «presidenza imperiale», trascinò con sé le speranze di un «nuovo ordine mondiale», rimandato per sempre, e lo si vede soprattutto oggi. Con lo scandalo Watergate andò perduto il cinismo al servizio della pace di Henry Kissinger. Specie nel Medio Oriente, dove il Metternich del XX secolo sapeva essere convincente negoziatore tra arabi e israeliani. Né il suo stretto collaboratore Alexander Haigh, né George Shultz, segretari di stato con Reagan, riuscirono ad eguagliarlo. Ci provò l’ottimo James Baker, quando tuttavia era troppo tardi per evitare la prima guerra del Golfo.

I “plumbers”

I cinque uomini che fecero irruzione nella sede del Partito Democratico al Complesso Watergate erano chiamati in gergo plum­bers, idraulici. Avevano tutti esperienze clandestine e componevano un gruppo se­greto addetto a operazioni per conto della Casa Bianca. L’obiettivo era ac­cumulare informazioni utili al Comitato per la Rielezione del Presidente. C’era già stata una prima irruzione, avvenuta con successo, nel maggio del ‘72, con l’innesto di microfoni che però non funzionavano. La notte del 17 giugno bisognava scoprire cosa non andava in quelle minuscole orecchie elettroniche.  I supervisori erano l’ex agente dell’Fbi Gordon Liddy e E. Howard Hunt, uomo della Cia e magistrale scrittore di spy-stories. Una com­binata di professio­nisti.

Gli inspiegabili errori degli scassinatori

Allora perché gli scassinatori commisero l’errore di risigillare le porte che davano sulla tromba delle scale, mettendo sul chi vive il guardiano che avvertì la polizia? O ancora, le telefonate agli scassinatori che incastrarono Hunt: sarebbe bastato farle da un telefono pubblico, non dal suo ufficio nell’Executive Building annesso alla Casa Bianca. Bob Woodward, che con Carl Bernstein seguì il caso per la Washington Post, aveva un informa­tore nell’Amministrazione, Gola Profonda, che il 31 maggio 2005 rivelò al mondo la propria reale identità. Si trattava di William Mark Felt, all’epoca vice direttore dell’Fbi. Fu quest’ultimo che disse dello staff presidenziale: «Non è gente molto sveglia». Altri sostennero che la presunzione d’immunità faceva trascurare i dettagli.

Gordon Liddy

Gordon Liddy

 Gordon Liddy, il fedele servitore di Nixon

Nel 1980 uscì Will (Volontà), l’autobiografia di Gordon Liddy, il fedele servitore di Nixon che si addossò gran parte delle responsabilità. Il 4 giugno 1973 comparve dinanzi al Comitato sul Watergate del Senatore Sam Erwin e gli fu posta la do­manda di rito: «Lei giura solennemente di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità?» «No» rispose Liddy.  Nel suo libro parte dai ricordi infantili della cameriera di casa, la tedesca Teresa. La donna da ragazza ascoltava alla radio i discorsi di Hitler, che secondo lei «aveva sollevato la nazione dalla morte e l’aveva liberata dalla paura.» Che da questa suggestione primaria venisse il fondamento della futura obbedienza a Nixon? Che Liddy ritrovasse nel Presidente le ragioni del Führerprinzip, il principio di autorità assoluta del capo, che soggiogò i tedeschi del Terzo Reich? Inoltre, quando discusse con John Mitchell, Ministro della Giustizia di Nixon, le attività clandestine di sostegno alla campagna di rielezione, Liddy parlò di affidarle a un Einsatzgruppe, gruppo speciale, come si chiamavano le unità Ss addette allo sterminio degli ebrei.

 

 

L’età della “diversione strategica”

Al teso fanatismo di Gordon Liddy era affiancato quello più controllato, ma non meno sconvolgente, di E. Howard Hunt. Aveva già scritto buoni ro­manzi di spionaggio, attingendo alle sue conoscenze di prima mano nella CIA. Magari contenevano messaggi in co­dice di quella guerra segreta mai dichia­rata e mai termi­nata. Hunt progettò con Liddy operazioni che nel gergo spio­nistico si defini­scono «diversione strategica» o più semplicemente «disinformazione». In altre parole, confondere le carte in modo da far cadere tutte le colpe sugli avver­sari. Questi, negli Stati Uniti sotto il tallone di Nixon, non erano solo i demo­cratici. Chiunque non fosse allineato sulle posizioni di una trionfalistica acquie­scenza alla Casa Bianca andava tolto di mezzo. Un’occasione si presentò sem­pre all’epoca del Watergate, quando Arthur Bremer sparò a George Wallace, governatore ultraconservatore dell’Alabama. Hunt preparò documenti che colle­gavano l’attentatore a George S. McGovern, candidato democratico alla presi­denza. Insieme a Liddy escogitò azioni contro Daniel Ellsberg, l’analista della Difesa che aveva divulgato sul New York Times i famigerati Documenti del Pentagono sul Vietnam. Dapprima Hunt e Liddy organizzarono l’irruzione nello studio del suo psicanalista, a Los Angeles, per ricavarne ma­teriale di discredito. Quindi tentarono di drogare Ellsberg col potente alluci­nogeno LSD 25 prima di un suo intervento in pub­blico, in modo da danneg­giare la sua immagine.

Il piano esisteva e mirava al controllo della società

Sono contorni del Watergate che ne acuiscono le caratteristiche di incubo della memoria collettiva. Un mistero perfettamente svelato, i cui colpevoli hanno ormai tutti un nome, ma a ripercorrerlo se ne avvertono ancora i sini­stri tratti cospiratori. Il piano esisteva, non era un’invenzione intellettuale come in Il pendolo di Foucault. Mirava al completo controllo di una società in­controlla­bile per eccellenza come quella americana. Era la risposta estrema dei conser­vatori alle istanze progressiste degli anni ‘60, che pure si erano trasci­nate die­tro gli effetti collaterali del degrado universitario, della delinquenza giovanile e dell’esplosione di violenza metropolitana che rimarrà endemica fino agli ul­timissimi episodi di Los Angeles. Ma chi come Nixon invocava la legge e l’ordine, non poteva porsi al di sopra di esse. Lo fece rilevare Alberto Ronchey introducendo l’edizione italiana di Tutti gli uomini del Presidente, il best-seller di Woodward e Bernstein. L’intenzione di spiare gli avversari era la perversione del tradizionale Electioneering, la campagna elettorale, inventata negli Stati Uniti come prima moderna espressione della democrazia. Ne risul­tava un Paese in stato orwelliano di intercettazione e sorveglianza elettronica permanente, e seppe rappresentarlo Francis Ford Coppola nel suo film La conversazione.

Woodward e Bernstein washington post

Si comprende dunque l’ossessione della verità che aveva invaso i due allora giovani Woodward e Bernstein, non gli unici, ma certamente i primi a com­prendere che «c’era ben altro» dietro l’effrazione. Come ci fu ben altro dopo l’evidenza della verità. La sindrome del Watergate non soltanto aveva arric­chito del suffisso gate tutti gli scandali successivi. Aveva ipotecato il futuro. Dopo la parentesi «istituzionale» di Gerald Ford venne un Jimmy Carter che «perse» l’Iran e non seppe liberare gli ostaggi a Teheran, mentre il successo di Camp David fu un raccolto postumo di semi gettati da Kissinger. Poi il cow-boy Ronald Reagan, che chiamò l’Unione Sovietica «impero del male» finché qualcuno della sua cerchia non si decise a spiegargli che i tempi erano comple­tamente cambiati e al Cremlino c’era un certo Gorbaciov. Per arrivare al Bush incerto fra i trionfi all’estero e i problemi interni.

Dalla Washington Post  una grande lezione di giornalismo investigativo

Per la Washington Post, comunque, l’inchiesta fu non profit. Le tirature aumentarono secondo la curva an­nuale, senza alcuna impennata. La sede del giornale, in L Street, fu conosciuta come la Casa Gialla, dal colore dei mattoni, e tenne testa alle accuse di collusione con i democratici che venivano dalla Casa Bianca di Pennsylvania Avenue. La campagna resta un modello di gior­nalismo investigativo. Woodward e Bernstein ebbero l’accorta conduzione del direttore Benjamin Bradlee, scomparso il 21 ottobre scorso, di Harry Rosenfeld, capo della redazione di Washington, di Howard Simmons, redattore capo, e di Barry Sussman, capocro­nista del Distretto di Columbia. Tutto era verificato prima della stampa.

1. Continua.

Enzo Verrengia

L'Autore

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