Sogni, promesse volano... Ma poi cosa accadrà?

Gianni Rodari

Privacy, troppi paletti per i giornalisti

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Questo contributo di Velia Iacovino, direttore editoriale di Futuro Quotidiano, fa parte di un paper – Public life/Private life: what are the boundaries for European journalists? – pubblicato in francese e in inglese  da Alliance internationale de journalistes e dalla fondazione Charles Léopold Mayer che ha coinvolto giornalisti ed esperti di comunicazione di tutta Europa. Lo proponiamo ai nostri lettori come spunto importante per la riflessione sulla professione giornalistica e sull’impatto per la libertà di informazione che producono alcuni tentativi normativi e presunte politiche editoriali.

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Troppi paletti per i giornalisti. Il dovere – diritto di cronaca non va compresso, ma difeso. Il rispetto della privacy è sacrosanto, ma intanto su internet si consuma ogni giorno la corrida di tutte le violazioni e per i media classici, assediati dalla crisi, dalla concorrenza e affollati di freelance pagati male ciò che conta sempre più è quello che chiede il mercato. Certo le vite di tutti vanno maneggiate con cura ma non possono avere lo stesso peso sulla bilancia.

 

Un robot in redazione. Non diffama e non viola la privacy

I giornalisti robot (1) non diffamano e non violano la privacy. Sono sempre stati il sogno degli editori, dei politici, dei dittatori e dei grandi manipolatori sociali. Oggi sono realtà. I robot sono entrati nelle redazioni dei media, non per fare le grandi pulizie come verrebbe più facile da immaginare, ma per scrivere articoli che, senza saperlo, già leggiamo, e che raccontano verità sterilizzate ed eticamente impeccabili. Un software (2) che produce notizie in automatico, rispettando persino la regola delle cinque W,  è dal primo luglio già in azione in una grande agenzia di stampa internazionale. In un futuro neanche tanto lontano, nessun direttore di giornale, dunque, rischierà più  di essere querelato e nessun giornalista subirà più reprimende per aver violato la deontologia professionale. Tutta quanta l’informazione, per il resto, finirà presumibilmente nelle mani di mercenari di news che confezioneranno notizie di fantasia modulate secondo i gusti e le pruriginosità di lettori complici ai quali racconteranno incredibili realtà su misura. Sono già in azione su Internet, dove gli influencer manipolano liberamente e dove si consuma la corrida di tutte le violazioni e la privacy non ha reti di protezione. Se è questo il futuro che vogliamo, un futuro che in qualche modo è già presente, lasciamo pure che il potere continui a partorire nuove regole che abbiano come obiettivo quello di ridurre i margini di libertà dell’informazione in nome del sacrosanto diritto alla privacy, favorendo forme di autocensura e alimentando nei giornalisti la paura di essere costretti ad affrontare risarcimenti milionari. E lasciamo anche che vada inesorabilmente avanti, insieme con l’esplosione dell’informazione sul web, la spending review nelle redazioni e in parallelo la svendita dei giornalisti. E’ quello che sta accadendo in Italia, dove sindacato ed editori hanno firmato un nuovo accordo per il lavoro autonomo che stabilisce in 250 euro al mese, 20 euro ad articolo, la retribuzione “equa” di un collaboratore precario. (3)

autocensura

Freelance sottopagati e giornalisti che si autocensureranno

Quali saranno le conseguenze di tutto ciò? E’ facile immaginarlo. Un freelance sottopagato e sfruttato dovrà macinare un pezzo dietro l’altro per sopravvivere e per giunta dovrà farlo da remote, nella solitudine di una stanza di appartamento magari condiviso, e non già dal ventre caldo e critico di un giornale. Il suo articolo a basso costo dovrà essere competitivo, battere tutti gli altri e per questo sarà colorato, gronderà sangue, racconterà ogni dettaglio piccante, raccolto su internet dai social network. Si’, perché il giornalista del futuro, per quanto bravo e preparato, non avrà tempo né disponibilità economiche per  inchieste sul campo ma dovrà lo stesso far fronte alla domanda del mercato dei lettori che anelerà sempre più a un tipo di informazione mordi e fuggi ed emotivamente forte. Così sarà sempre più facile creare mostri da sbattere in prima pagina e passare come carri armati sulle esistenze altrui, sicuramente su quelle di chi sarà meno in grado difendersi dallo scempio di uno sciacallaggio gratuito.

E’ per questo che bisogna dire no a nuove restrizioni e no alla progressiva e incessante dequalificazione della professione. Se non si riuscirà a bloccare questo processo in atto il futuro al quale si andrà incontro non potrà che essere  tra i più sconsolanti con una sempre più ristretta casta di professionisti privilegiati, che non oseranno toccare i potenti e sceglieranno il bavaglio pur di non perdere il posto di lavoro, spaventati da minacce di querele    e cause civili da una parte e dall’altra un esercito di produttori a cottimo di news. E’ per questo che bisogna evitare che il legislatore imponga nuovi paletti e bisogna battersi affinché  venga restituita dignità ai giornalisti. Un giornalista, degno di questo nome, libero e onesto, non un galeotto della tastiera o uno schiavo, non ha bisogno di codici, normative e regolamenti per fare il suo mestiere. Sa bene cosa significhi esercitare il dovere e il diritto di cronaca, sa bene cosa sia il rispetto della dignità altrui. Non lasciamo che un giornalista così diventi una specie in via di estinzione. Sarebbe un grave vulnus alla democrazia.

 

Libertà di stampa. Italia dopo la Namibia, ma è migliorata

La deriva purtroppo è in atto da tempo. Non sorprende, quindi, se per quanto riguarda la libertà di stampa l’Italia si sia collocata al 49° posto nella classifica dello World Press Freedom Index . Una posizione di cui non possiamo essere fieri, nonostante  la risalita di otto punti registrata rispetto allo scorso anno. Merito di chi e di cosa? Dell’arretramento di altri paesi? Della prospettiva che si era venuta  a delineare di una legge per la depenalizzazione del reato di diffamazione a mezzo stampa? Il punto è che in classifica siamo addirittura sotto al Costa Rica, alla Namibia, a Capo Verde e al Ghana. Uno schiaffo all’articolo 21 della nostra Costituzione.

Questo lo scenario a grandi linee. Uno scenario da day after per un mestiere in coma profondo, minacciato da precarietà,  strapotere editoriale e politico, crisi economica e incapacità di trasformare in vantaggio i nuovi media dell’era di Internet. Uno scenario nel quale è evidente che ogni partita che si andrà a giocare, sia sul fronte professionale che su quello normativo, sarà determinante per le ricadute che avrà e che saranno inevitabilmente ad ampio raggio e tali da coinvolgere tutta la nostra società, la sua capacità di decidere il proprio  destino,  il suo stato di salute, lo stato di salute della nostra democrazia. Qui non sono a rischio, come molti sostengono per banalizzare la gravità del momento, i piccoli e grandi privilegi del quarto potere. E’ a rischio il diritto di informare, che è un bene prezioso, che va difeso in ogni modo,  ma anche e soprattutto è a rischio il diritto ad essere informati che è tra i valori primari garantiti da quella inviolabilità alla quale fa riferimento l’articolo 2 della nostra carta fondamentale. (4)

 

La battaglia di marzo. Scongiurato il giro di vite della Privacy

Risale allo scorso marzo l’ultima battaglia,  che si è consumata in Italia contro il rischio di nuovo pesanti limitazioni alla libertà di informazione. L’Ordine dei Giornalisti è riuscito a scongiurare il tentativo del Garante della Privacy, Antonello Soro, (5) di riformare l’attuale codice deontologico, allegato alla legge sul trattamento dei dati personali, che è invece un vero capolavoro di equilibrio giuridico tra diritti e doveri e che per questo non ha bisogno di essere modificato. Il testo, poi messo da parte, introduceva nuove regole che in qualche modo sembravano mirate a  indurre il giornalista a mettersi il bavaglio da solo. A cominciare dal primo articolo che, ribadendo il principio costituzionale secondo il quale “la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”, andava a rafforzare il limite “dell’essenzialità dell’informazione”. Un tassello letale per la libertà di stampa, al quale, come se non bastasse, se ne andava  ad aggiungere un altro, che puntava a codificare l’accuratezza delle notizie destinate alla diffusione. Una caratteristica che è tra le aspirazioni che devono certamente guidare il cronista, ma che si trova quasi sempre a dover fare i conti con un grande ostacolo: il tempo. Ma che comunque, non deve mai diventare (come invece prevedeva l’articolo 3 della bozza del Garante) un capo d’accusa in caso di querela o deferimento al Consiglio di disciplina. Il provvedimento mirava inoltre a imporre  il diritto all’oblio attraverso l’aggiornamento dei dati conservati negli archivi, la loro deindicizzazione e la rimozione di vecchi articoli, tutto ciò in contrasto con quanto stabilito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (6), secondo cui gli archivi web dei giornali non solo sono protetti dall’articolo 10 della Convenzione che garantisce la libertà di espressione, ma rivestono anche un ruolo centrale in una società democratica per il loro valore storico.  E non è tutto. Il Garante chiedeva anche di non menzionare, nella stesura di un articolo, riferimenti a particolari riguardanti il passato fino a vietare di citare il condannato, perché questo avrebbe potuto incidere sul suo percorso di reinserimento sociale. Un modo evidente per far calare il sipario sul passato di personaggi pubblici, pronti, in caso di violazione da parte di qualche giornalista, a chiedere pesanti sanzioni. E ancora: la bozza conteneva forti restrizioni alla pubblicazione del testo letterale delle intercettazioni telefoniche, diritto anche questo salvaguardato dai giudici della Corte europea, secondo la quale nel bilanciamento dei vari interessi in gioco è prioritaria la tutela della libertà di stampa, essenziale in una società democratica. La riforma stabiliva anche che il giornalista avrebbe dovuto tacere l’identità di chi veniva sentito nell’ambito di un procedimento giudiziario a meno che conoscerla  non fosse stato necessario a comprendere la notizia. Impediva, infine, senza alcuna eccezione, l’identificazione delle persone, a qualunque titolo citate negli atti del procedimento, ma non coinvolte e  invitava a valutare i rischi nel fare riferimento a indagati.

Piccoli passi per imbrigliare sempre più l’autonomia dei giornalisti, già assediati da una serie di cambiamenti epocali che ne rendono meno incisivo il tradizionale ruolo storico. Regole e regolette ad alto rischio che avrebbero ulteriormente accresciuto le possibilità di violazioni del Codice della privacy. Già oggi derogarne può avere pesanti conseguenze. E’ un comportamento equiparato al trattamento dei dati senza il consenso dell’interessato, un reato procedibile d’ufficio e punibile con la reclusione: se il giornalista lo ha commesso per ottenere un profitto per sé, quale può essere una promozione; o per altri, ad esempio per l’editore che, da uno scoop, trae un utile proporzionale al maggior numero di copie vendute. Una condotta pericolosa che causa sempre danni, salvo che si provi il contrario, danni  che il giornalista e l’editore dovranno risarcire. E che si configura come illecito disciplinare, che, nei casi più gravi, può essere sanzionato con la sospensione o la radiazione dall’albo (6). E’ chiaro che nuove restrizioni non avrebbero che aumentato l’autocensura, soprattutto nei confronti dei potenti.

La privacy infatti non è uguale per tutti e vale di più per chi dovrebbe valere di meno. Avviene spesso che vite qualsiasi vengano messe alla gogna. Avviene perché nell’era di Internet, come si è detto, è cresciuta la concorrenza ai mezzi di informazione classici che hanno allentato il controllo. Avviene perché si è abbassato il livello di professionalità dei giornalisti. Avviene perché gli editori alle prese con la crisi economica devono vendere di più. Ma contro questa deriva non serve inasprire una legge sulla privacy che va bene già così com’è.

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Il caso Gambirasio e il tweet del ministro Alfano

Il caso dell’omicidio di Yara Gambirasio, la ragazzina uccisa nel novembre 2010, è esemplare. Non solo i giornalisti e i social network hanno infierito su alcuni aspetti di questa vicenda ma va stigmatizzato il modo in cui lo stesso ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ha annunciato la svolta nelle indagini. Vanno stigmatizzate le parole che ha usato nel suo tweet: “individuato l’assassino”. Parole in palese violazione di un principio costituzionale fondamentale: la presunzione di innocenza, che vale non solo per i politici, ma anche e tanto più per un Massimo Bossetti qualsiasi inchiodato dalla prova del Dna.

Il ministro ha sbagliato ed è finito nel mirino di polemiche di fuoco. Hanno sbagliato i giornalisti, ma hanno sbagliato non nel riportare il nome e cognome o le foto del presunto colpevole. Hanno valicato il confine in un punto preciso. E lo chiarisce lo stesso Garante nella nota diffusa il 19 giugno scorso, quando parla della “tendenza (…) a diffondere informazioni e particolari – anche di natura sensibile e addirittura genetica – inerenti soggetti toccati soltanto indirettamente e marginalmente da vicende giudiziarie che hanno avuto una notevole eco nell’opinione pubblica”. Il riferimento è alla questione collaterale emersa dalle indagini, è ai genitori di Bossetti, che ha scoperto all’improvviso di essere figlio naturale di un uomo diverso da quello che l’ha cresciuto, ma soprattutto il riferimento è alla situazione della madre, mediaticamente messa sotto tiro, devastata nella sua vita “familiare e di relazione”, una vita già sconvolta da ben altra tragedia, quella di un figlio accusato di un terribile omicidio. Il Garante si è limitato a  invitare i cronisti a parlare del presunto colpevole, non del rapporto coniugale dei genitori. (8)

Tutto qui. Del resto l’articolo 6 del Codice deontologico al comma 1 recita chiaramente: “La divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale non contrasta con il rispetto della sfera privata quando l’informazione, anche dettagliata, sia indispensabile in ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti”. Il che significa che è possibile descrivere ciò che è accaduto, parlare delle indagini e di tutto ciò che riguarda il presunto autore. Quanto ai nomi, il solo divieto al quale si fa riferimento è quello relativo ai minori. Mentre per le foto,  l’articolo 8, comma 1, avverte che quelle di soggetti coinvolti in fatti di cronaca sono pubblicabili se rispettano l’essenzialità dell’informazione, cioè se fanno parte integrante della notizia.

La privacy non è uguale per tutti

Ma se è giusto che le vite di tutti vengano maneggiate con cura estrema dai cronisti, va pur detto che non tutte le vite sono uguali e  non hanno né possono avere lo stesso peso sulla bilancia dell’informazione. E’ senz’altro il caso di chi decide di fare politica. Una scelta che impone automaticamente la rinuncia a una larga porzione della propria privacy rispetto a un qualsiasi cittadino. Chi decide di mettersi al servizio della collettività deve rendersi trasparente, sicuramente più trasparente degli altri.

Le vicende che hanno visto coinvolto in questi anni Silvio Berlusconi lo insegnano. Macchina del fango? Fino a un certo punto. Se fosse stato un privato cittadino qualunque nessuno si sarebbe occupato più di tanto, se non a livello di gossip da rotocalco, delle sue feste e dei suoi festini, delle notti ad Arcore e della donne che frequentava. Ma, essendo un presidente del Consiglio, è stato inevitabile e meno grave rispetto ad altri casi, quelli riguardanti gente qualsiasi, violarne la privacy. C’è stato accanimento? Forse. Ma una cosa è certa: un uomo delle istituzioni deve avere comportamenti irreprensibili, intanto perché costituisce un esempio per gli altri, poi perché costituisce inevitabilmente un punto di riferimento per chi lo ha votato, infine perché è percepito dal mondo intero come espressione dei valori della società che rappresenta, al di là dei suoi stessi elettori. Se macchina del fango c’è stata – ed è il sentire comune degli italiani-  è quella piuttosto subita dall’Italia, che potrebbe chiedere un risarcimento danni al suo ex premier per le ricadute che l’immagine del paese ha avuto a livello internazionale dal caso di Karima el Mahroug, detta Ruby, dal Bunga Bunga, dalle cene boccaccesche e da altre hot story. No, non si tratta di fare del falso moralismo. A un personaggio del genere si richiede limpidezza soprattutto per una ragione che non è certo di poca importanza: quella che riguarda la sicurezza della stato. Un premier che non è in grado di esercitare controllo su se stesso è a un passo dal diventare un premier ricattabile ed è comunque una persona non affidabile.

L’auspicio è quindi che il principio dei due pesi e delle due misure sul fronte della privacy si consolidi e si precisi, soprattutto dopo la sentenza pronunciata dalla Corte di Strasburgo contro Francia, Grecia e Finlandia per la condanna comminata a giornalisti che avevano svelato particolari riservati riguardanti i vertici politici dei loro paesi. In Italia a sostegno di questo indirizzo giuridico si è schierato Felice Casson, senatore del Pd ed ex giudice istruttore, che, in una intervista a “La Repubblica” sulle intercettazioni, ha auspicato che non venga toccata l’attuale normativa perché esse rimangono strumento indispensabile di indagine. “Non è facile trovare il punto di equilibrio tra la privacy delle persone, il diritto di cronaca dei giornalisti e quello dei cittadini di sapere. Perché una democrazia si basa anche sull’informazione”, ha detto Casson.  “Penso – ha sottolineato- che chi decide di fare politica rinunci quasi per definizione ad una fetta della propria privacy. Nel senso che deve essere più trasparente rispetto al cittadino normale su tutti gli aspetti”. Casson, che ha firmato un emendamento che prevede per i giornalisti “una scriminante” che consente di violare la norma sulla riservatezza quando si tratta di notizie di alto rilievo istituzionale, ha ribadito il suo impegno a tutelare la privacy ma con i limiti previsti dalla corte di Strasburgo che attribuisce al giornalismo il ruolo di “cane da guardia della democrazia”, che sono gli unici limiti ammissibili. Limiti che sono contemplati già dal nostro attuale Codice deontologico, che si vorrebbe riformare, entrato in vigore il 3 agosto 1998 dopo l’approvazione della Legge 675 del 31 dicembre 1996 sulla Tutela della privacy, ma che non è vecchio per niente.

All’articolo 6 è già contemplata la distinzione, ormai auspicata da molti, tra privati cittadini e persone pubbliche che stabilisce una netta relazione tra notorietà e notiziabilità da cui discende appunto il principio secondo il quale la sfera privata delle persone pubbliche può essere violata se le notizie hanno un rilievo sul loro ruolo sociale o sulla loro vita pubblica. Perché, dunque, aggiungere alle norme già esistenti altre norme che andrebbero soltanto ad opacizzare il quadro attuale?

Velia Iacovino

(1)          La parola robot viene dall’antico slavo e significa servo

(2)          La Automated Insights ha prodotto un software che si chiama Wordsmith in grado di elaborare dati forniti da compagnie su ricavi e perdite e trasformarli in articoli brevi compresi tra 150 e 300 parole.

(3)          Il nuovo contratto nazionale è stato firmato lo scorso 24 giugno. L’accordo raggiunto sul compenso minimo ai freelance tra Fnsi e Fieg ha provocato forti lacerazioni all’interno della categoria. Sono state chieste le dimissioni del segretario della Federazione nazionale della stampa Franco Siddi e l’Ordine nazionale dei giornalisti ha annunciato ricorso al Tar.

(4)          Il diritto di cronaca, quale diritto passivo di essere informati è stato desunto in forma interpretativa dalla Corte Costituzionale (sentenza 94/1977) che lo ha collocato tra i valori primari, garantiti dall’articolo 2 della Carta (cfr. Manuale di giornalismo di Alessandro Barbano in collaborazione con Vincenzo Sassu Editori Laterza)

(5)     Bozza del Codice di Deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, presentato nel marzo 2014dal Garante della Privacy,  Antonello Soro.

(6) Cfr articolo 167 cod. privacy (il d.lgs n. 196/2003) sul trattamento illecito dei dati personali al fine di trarne per se’ od altri profitto o di recare ad altri danno. La norma in vigore ha portata generale e vale per tutti i soggetti,  dunque anche per i giornalisti che non ne sono esentati.

(7)     Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 16 luglio 2013, (causa Galasso e Altri?),  su ricorso n. 33846/07

(8)      (www.francoabruzzo.it/document.asp?did=14212)

(9)      “Caso Yara. I limiti dell’informazione tra normativa privacy e codice deontologico. 8 luglio, Massimiliano Melley (http://www.stradeonline.it/11-diritto-e-liberta/681-caso-yara-i-limiti-dell-informazione-tra-normativa-privacy-e-principi-deontologici)

 

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