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Gianni Rodari

  Alla Turchia spetta la causa palestinese?

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Dagli anni delle primavere arabe ad oggi la Turchia ha gradualmente assunto una posizione leader di fronte alle nuove dinamiche sorte dai moti rivoluzionari. Ad oggi che potere esercita sul conflitto Israelo-palestinese?

L’area geografica su cui attualmente sorgono lo Stato di Israele e i Territi Palestinesi (Cisgiordania, Striscia di Gaza e Gerusalemme Est), è stata una provincia dell’Impero Ottomano dal 1516 al 1917, il cui centro di potere risiedeva nell’attuale Turchia. La provincia non godeva di una grande rilevanza sul piano geo-politico, era distante dalle autorità centrali e veniva spesso descritta dai viaggiatori occidentali del Ventesimo secolo come una regione sporca e vittima della criminalità. La società che la abitava era marcatamente araba, agricola e devota all’Islam, sebbene l’impero Ottomano avesse concesso l’esistenza dei millet, ossia delle comunità non islamiche quali gli ebrei o i cristiani, i quali potevano vivere nella regione senza rinunciare al proprio credo o alla propria etnicità. La Turchia rivendica quindi un legame storico con la Palestina, il cui attuale punto di contatto non è l’elemento arabo, bensì quello musulmano.

Gerusalemme ospita infatti il terzo centro religioso più importante per la comunità musulmana mondiale. Si tratta di Haram al Sharif, dove la moschea Al-Aqsa è stata la prima qibla per i fedeli, mentre nella Cupola della Roccia è avvenuta l’ascensione di Maometto al cielo. Con la fine dell’impero Ottomano, il generale Musta Kemal Ataturk fondò la moderna Turchia. Il kemalismo si eresse a ideologia portante, retta da tre pilastri fondamentali: il nazionalismo che rivendicava la centralità dell’apparato militare; il repubblicanesimo posto in essere per rispondere ai bisogni del popolo turco ed in fine il laicismo.

Quest’ultimo elemento non indicava l’eliminazione dell’Islam, bensì diminuiva l’influenza religiosa all’interno delle cariche governative relegando l’Islam alla sfera privata e non alla sfera pubblica della nuova società turca. Venne così abolito il califfato ottomano e nacquero la Direzione per gli affari religiosi e la Direzione per le fondazioni pie, tutt’oggi importanti organi di controllo da parte dello stato centrale sui temi religiosi del paese.

Negli Ammi Ottanta la Turchia, sotto la direzione del suo ottavo presidente Turgut Ozal, riscoprì il fattore Islam come elemento di coesione nazionale, aprendo le porte ad un islamismo politico turco che condusse alla vittoria del partito Adalet ve Kalkinma, ossia Giustizia e Libertà, noto con l’acronimo AK, guidato dall’attuale presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan. Sebbene l’Islam sia stato un elemento caratterizzante la storia della Turchia, le politiche interne ed estere adottate da Erdogan hanno evidenziato un approccio fondamentalista volto a rendere la Turchia il leader del mondo sunnita.

Ciò è risultato delle operazioni militari sancite da Erdogan in Libia contro le forze sostenute dagli Emirati Arabi; in Siria contro l’esercito di Basah al-Assad; in Iraq contro il Partito Turco dei Lavoratori; nel Karabakh entrando in rotta di collisione con la Russia e all’interno del conflitto Israelo-Palestinese, rivendicando i diritti dei palestinesi di fronte ad un Israele tacciato di terrorismo. Di fatti Erdogan non è percepito come una leader ingerente negli affari interni dei paesi arabi, solo da questi ultimi, ma anche dalle potenze europee. Il presidente francese Emmanuel Macron ha parlato di una politica neo ottomana, alludendo alle mire espansionistiche della Turchia, mentre il primo ministro italiano Mario Draghi ha additato il presidente turco quale dittatore, riferendosi al caso Von der Leyen, suscitando tra i lettori occidentali una più ampia critica rivolta alle gravi violazioni dei diritti umani esercitate dallo stato turco.

Inoltre il 16 maggio il Parlamento Europeo ha deliberato il report annuale sulla Turchia, dove ha evidenziato lo scarso progresso in ambito di diritti umani, proponendo l’inserimento nella lista dei terroristi di cinque gruppi turchi quali: i Ülkücüler, ossia i cani sciolti; il Kürdistan İşçi Partisi, il Partito dei Lavori del Kurdistan (PKK); i  Teyrêbazên Azadiya Kurdistan‎, i falchi liberi del Kurdistan (TAK); İslami Büyükdoğu Akıncılar Cephesi, i Cavalieri del Fronte del Grande Oriente (IBDA-C); il Devrimci Halk Kurtuluş Partisi-Cephesi, il Fronte di Liberazione Nazionale del Popolo (DHKP-C). La presenza dei gruppi sopraelencati all’interno della lista nera dell’UE, significherebbe un immediato congelamento dei fondi UE diretti verso la Turchia.

Inoltre il report segnala la collisione tra le priorità in politica estera della Turchia con quelle dell’Unione Europea, invitando la Repubblica Turca a rivedere la propria posizione e a cambiare rotta. In definitiva che significato assumono le posizioni turche, vissute con allarmismo dal mondo occidentale e con sospetto da quello orientale, relativamente al conflitto Israelo-Palestinese?

Da quando Israele ha normalizzato le relazioni diplomatiche con gli Emirati Arabi, il Bahrain, il Marocco ed il Sudan, il paradigma per cui il riconoscimento di Israele da parte della comunità araba fosse subalterno alla creazione dello stato palestinese è saltato. La difesa della causa palestinese pare essere sostenuta con toni perentori principalmente dall’Iran e dalla Turchia, due paesi non arabi che in assenza di interventi concreti da parte dell’Unione Europea, portano avanti una campagna antisraeliana, molto vicina alla politica di Hamas.

Quest’ultimo, noto per il suo approccio fondamentalista e violento, ha accresciuto la sua autorevolezza negli scontri delle ultime settimane. Ha ampliato la sua capacità balistica, minando la percezione di sicurezza israeliana e adombrando il presidente palestinese Mahmoud Abbas, il partito Fatah e l’Autorità Nazionale Palestinese. Negli ultimi anni Erdogan, proprio in virtù del legame storico tra la Turchia e la Palestina, ha tentato di porsi come mediatore tra Fatah e Hamas e tra l’Autorità Nazionale Palestinese e Israele, ma l’incendiarsi delle violenze tra israeliani e palestinesi ha interrotto il dialogo, rafforzando la vicinanza tra Erdogan e Hamas. Risulta chiaro che gli stati sostenitori di posizioni estreme all’interno del conflitto Israelo-Palestinese, così come gli stati che tacitamente avallano in modo inderogabile le ragioni israeliane, non produrranno mai un processo di pace onesto.

L’Unione Europea può inserirsi in questo scenario, adottando una politica più robusta nei confronti di Israele che rimarchi l’assenza di democraticità del governo israeliano sui territori palestinesi. Sostenendo contemporaneamente il popolo palestinese affinché, piuttosto che rifugiarsi nella violenza come unica via perseguibile per l’edificazione del proprio stato, possa ricostruire una leadership maggiormente rappresentativa dei bisogni palestinesi e più propensa alla mediazione.

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