Il futuro entra in noi, per trasformarsi in noi,
molto prima che accada.

Rainer Maria Rilke

Braveheart. La Scozia Indipendente?

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La Scozia si accinge a vivere un nuovo glorioso Stirling Bridge day. La battaglia dell’indipendenza di cui l’11 settembre 1297 fu protagonista William Wallace, il leggendario condottiero separatista, interpretato sul grande schermo da Mel Gibson, si rigiocherà il 18 settembre, questa volta nel segreto dell’urna, ma con un esito destinato, oggi come allora, ad avere ricadute importanti sullo scenario economico e geopolitico europeo. Le prove generali già stasera, con un faccia a faccia che si annuncia decisivo, tra Cuore Impavido, il premier Alex Salmond e Alistar Darling, il fedelissimo della Corona, leader del fronte del no. Salmond, dicono, sta affilando le armi da vero highlander e si sta preparando allo scontro come il suo leggendario predecessore. È pronto a tutto. E i bookmakers lo danno per vincente. La posta è alta. Se riuscirà a mettere Darling alle corde, il primo ministro scozzese potrà sperare di dare uno scossone definitivo ai sondaggi che per ora continuano saldamente a pendere dalla parte dell’Unione Jack, 46% contro il 40% dello schieramento irredentista.

Per Salmond scozzesi più ricchi senza gli inglesi

Ma il partito del no scozzese ha tirato fuori in queste ore un asso dalla manica. Con il placet del premier britannico David Cameron, del leader laburista Ed Miliband e del leader liberal democratico Nick Clegg, rilancerà l’impegno preso da Londra a inizio 2014 a concedere più poteri al parlamento scozzese in caso di sconfitta degli indipendentisti. E non solo, nel documento che Darling sventolerà in tv c’è anche la promessa di rafforzare la decisionalità nazionale in aree particolarmente importanti come quella della responsabilità fiscale e della sicurezza sociale.

Salmond reagirà sicuramente usando le sue frecce più acuminate. E mirerà dritto al cuore della questione: la Scozia indipendente sarà più ricca. Ha fatto i conti e i numeri sono dalla sua parte. In caso di vittoria del sì, l’economia della nazione crescerebbe di oltre 6 miliardi di euro l’anno, assicurando alle tasche di ogni cittadino – la popolazione scozzese è di 5,3 milioni di abitanti, l’8,3% del Regno Unito – 1.250 euro l’anno in più. Holyrood ha infatti un prezioso tesoretto su cui mettere le mani: le riserve petrolifere del mare del Nord, 65 milioni di tonnellate di greggio estratto nel 2013. Senza contare il suo oil hub: Aberdeen, città che insieme a Edimburgo sta conoscendo una crescita senza precedenti. Tutte risorse che Londra perderebbe. La risposta inglese? Non potrà che essere questa: l’unione fa la forza. Con Darling pronto a tirare fuori dal cilindro un maxipiano di reindustrializzazione per la regione, che prevede investimenti pazzeschi anche nella salvaguardia dell’ambiente.

La sterlina contesa

Poi c’è la sterlina. La Scozia indipendente dovrebbe rinunciarvi. Londra ha già da mesi recisamente escluso che si possa soltanto valutare l’ipotesi di un’unione monetaria. Anche perché in caso di crisi finanziaria del nuovo stato, il Regno Unito sarebbe costretto ad accollarsi tutto. Il no inglese alla condivisione della sua moneta avrebbe contraccolpi sul sistema fiscale e finanziario. Molto meglio allora per la Scozia, sostengono in molti, unirsi all’euro o introdurre una nuova moneta. Ma in questo caso Edimburgo sicuramente reagirebbe non riconoscendo la propria parte del debito britannico. Così l’alternativa più plausibile non potrebbe che essere quella di un periodo di interregno nel corso del quale la Scozia avrebbe l’opportunità di chiedere l’adesione all’Europa.

Adesione all’Europa, spinosa questione e possibile effetto domino

Europa, un’altra nota dolente. La Scozia vorrebbe restare nella Ue. Lo ha già fatto sapere. Ma esattamente come ci sta ora la Gran Bretagna. Ossia con la sterlina e fuori dell’area Schengen. Ovvio che l’Unione non potrebbe mai accettare queste condizioni. Neanche se gli scozzesi si presentassero come i buoni in cambio degli inglesi cattivi. La Ue, che ha già tanti problemi da affrontare, non sembra tenere molto a questa nuova sfida e potrebbe far conto sui tempi lunghi e la burocrazia. Alla Scozia indipendente, se ma ci sarà, è già in programma di sollecitare una richiesta formale di adesione. Ma Edimburgo non si farà cogliere impreparata. Replicherà sostenendo che di fatto la Scozia nella Ue c’è già. Lo dimostra il fatto che il suo parlamento ha finora approvato tutte le leggi della Comunità europea, inglobandole nel proprio ordinamento giuridico. Si aprirebbe così un contenzioso complesso e senza fine. E lo scenario successivo sarebbe quello dell’effetto domino. Dopo Edimburgo potrebbero provare subito a chiedere il riconoscimento alla Ue anche la Catalogna, che ha fissato già il suo referendum ( che non è frutto però di un accordo con il governo centrale come quello scozzese) per il 9 novembre e… il Veneto, che guarda da sempre alla Scozia come a un faro.

E se Londra lasciasse la Ue?

Saltando poi altre tante questioni, da quelle dei confini, alle forze armate, all’adesione alla Nato, c’è un ancora un nodo importante che va a intersecarsi con il voto scozzese di settembre: il referendum britannico sull’Europa annunciato entro il 2017. Se la Scozia uscisse dal Regno Unito, il voto a favore della Ue perderebbe almeno tre milioni di preferenze, lasciando al nazionalista Nigel Farage campo libero e l’uscita di Londra dall’Unione sarebbe cosa fatta.
Ma questa è un’altra storia che merita un capitolo a parte per le immense ripercussioni che avrebbe sul Vecchio Continente. Si può solo dire per ora che i cambiamenti interni al Regno Unito stesso sarebbero enormi. Ci sono Cassandre che prevedono il disastro, il collasso dell’economia britannica e un’impennata della disoccupazione. Al contrario c’e’ chi prospetta un futuro di gran lunga migliore, con varie sfumature di rosa. Positivi sarebbero sicuramente gli effetti di un’uscita della Gran Bretagna dalla Ue secondo i calcoli contenuti nel Lyons Report, che in questi giorni, il sindaco di Londra Boris Johnson va sbandierando: il paese fuori dell’Europa crescerebbe con un Pil destinato a salire addirittura a quota 615 miliardi entro il 2034. Ma con tutta una serie di ma. Londra dovrebbe riuscire a mantenere un regime di libero mercato, a non perdere i legami storici commerciali con le ex colonie e così via. Se invece il Regno Unito scegliesse di rimanere all’interno dell’Unione, l’unica speranza di raggiungere lo stesso obiettivo di prodotto interno lordo sarebbe legata alle riforme, alla capacità della Ue di orientarsi verso i mercati emergenti del resto del mondo e di essere più flessibile. Impresa non facile. Nessuna speranza di crescita, o comunque speranze minime, se lo scenario politico, economico e finanziario dell’Unione quello attuale. Il grande salto non ci sarebbe. Cosa dobbiamo sperare? Forse che la Gran Bretagna incroci le dita ed eviti di perdere la Scozia. Ma forse anche che esca dal suo isolazionismo, che prenda in pugno la situazione e che, per il bene di tutti, si metta alla guida di un movimento vasto e forte che abbia come obiettivo quello di cambiare le regole d’Europa, trasformando il carrozzone Ue in una macchina smart in grado di viaggiare verso il futuro.

Velia Iacovino

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