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Gianni Rodari

Altro che consumi, a bloccare l’Italia è il crollo degli investimenti

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È incredibile come nella cosiddetta Società della conoscenza, basta ripetere in televisione un sufficiente numero di volte una certa tesi per farla vera. Ciò vale, ad esempio, sulla priorità ormai incontrastata che giornalisti e politici assegnano ai consumi interni come leva prioritaria per far “ripartire” quell’economia che è ferma da vent’anni. Ma chi l’ha detto? Come l’ha dimostrato? Il dettaglio non è del tutto triviale, visto che sulla base di queste assunzioni il governo Renzi ha deciso di puntare tutto sugli 80 euro ai lavoratori dipendenti e più recentemente alle mamme.

Ed invece a vedere i numeri del rapporto presentato dalla Commissione Europea, la fotografia dell’economia italiana risulta diversa. E la notizia non è quella che la contrazione del Pil in Italia sarà nel 2014 dello 0,4 invece che dello 0,3%. Ma che a condannarci è la mancanza di investimenti. Che in economia sono un indicatore della fiducia nel fatto che ci sia futuro. Più che quella dei consumi. In questi tre ultimi anni sono scesi i consumi (che hanno subito una contrazione media di 2,3 punti percentuali all’anno e che cresceranno dello 0,3 tra 2014 e 2015), ma di più sono crollati gli investimenti (4,9% e che continueranno a diminuire dello 0,6 per cento).

E ciò vale anche per quella metà di Pil che è creata dallo Stato: la spesa pubblica viene tutt’al più contenuta; in picchiata sono, di nuovo, gli investimenti in infrastrutture: da quelle fisiche di cui hanno bisogno estremo le nostre città e i nostri territori; a quelle digitali che hanno, a loro volta, un impatto sugli investimenti privati ed, in particolare, sulla possibilità che se ne attraggano di nuovi o che si trattengano i pochi innovatori che testardamente decidono di rimanere in Italia. Eppure tutti continuano ad insistere sulla domanda interna, come se fossimo sostanzialmente una somma di individui, anzi di asini che rifiutano di bere e così facendo si condannano ad ulteriore recessione.

Gli investimenti “indicano” più dei consumi

Ed, invece, sono gli investimenti quelli che: in primo luogo, dicono molto meglio dei consumi se un Paese ha strutturalmente intrapreso una strada di crescita sostenibile perché essi aumentano quando aumenta il ritorno atteso sugli investimenti che, appunto, dipende dai fattori del contesto che vogliamo “riformare”; e, contemporaneamente, sono leva molto più efficace per produrre crescita perché il loro effetto è, per definizione, destinato a durare nel tempo. Investimenti più che consumi, anche perché i consumi (come quelli del Natale che sta per arrivare) hanno normalmente un contenuto di impatto ambientale più elevato, ed essi si dirigono, in quota parte maggiore che gli investimenti, verso l’importazione di beni e servizi dall’estero.

beiGli investimenti hanno, però, un problema: non c’è un pulsante premendo il quale ne ottengo un incremento. Se sono pubblici non possono prescindere – in un Paese come l’Italia – dal duplice problema di evitare la corruzione (che sembra essere associata a quasi qualsiasi grande intrapresa dello Stato dall’Expo al Mose) e concentrarsi sulla costruzione di “specializzazioni intelligenti” che necessitano scelte e, quindi, una strategia che oggi al Paese Italia manca quasi completamente. Ed in questo senso è paradossale che a dover commentare i numeri della Commissione europea, sia stato il sottosegretario Del Rio, proprio all’incontro nel quale si presenta l’accordo di partenariato che dovrebbe governare il più sostanzioso pacchetto di investimenti – 64 miliardi di euro di fondi strutturali finanziati dalla Commissione Europea – che l’Italia avrà a disposizione.

Stato imprenditore? Sì ma intelligente

Programma di investimenti che, tuttavia, non funzionerebbe, come è già successo nel passato, se non c’è una strategia, se le risorse scarse dello Stato non sono impiegate per costruire “specializzazioni intelligenti” in grado di mobilitare ulteriori investimenti privati. In questo accordo si fatica ancora a vedere non solo scelte di specializzazione; ma metodi per poterle effettuare e meccanismi per rinnovare profondamente le competenze – dentro e soprattutto fuori dalla PA – che esige la necessità di dover cambiare radicalmente verso ai risultati nella spesa – finora fallimentare – dei fondi strutturali.

Investimenti, dunque, ma anche conoscenza, competenze, talento senza i quali investire rischia di diventare “scavare buche per riempirle” pur di muovere l’economia: cosa che andava bene quando Keynes faceva il consulente per il governo americano e il peso del settore pubblico (e delle tasse) sul Pil era inferiore al 30%; ma che, oggi, invece, non è più possibile se lo Stato non diventa imprenditore. Intelligente, ovviamente. In grado cioè di generare attraverso le sue scelte e gli investimenti in innovazione, aspettative sostenibili.

Ha ragione Renzi quando dice che l’Italia deve essere rispettata dai “burocrati di Bruxelles”. Ma per riuscirci bisogna avere l’umiltà di riconoscere che dobbiamo ancora cominciare a costruire una burocrazia italiana all’altezza di una sfida dalla quale dipende buona parte della possibilità di smentire le previsioni dell’ultimo rapporto della Commissione Europea.

Francesco Grillo

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