La mutilazione per cui la vita perdette quello che non ebbe mai,
il futuro, rende la vita più semplice,
ma anche tanto priva di senso.

Italo Svevo

Dopo fallimento Eurogruppo, la strada stretta èer trovare strategia tra Varoufakis-Merkel

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Su una cosa Yanis Varoufakis ha totalmente ragione. Il problema più grosso di un debito pubblico elevato è che esso contiene il rischio di un’ingiustizia talmente enorme da mandare in frantumi non solo un’economia ma le ragioni stesse di un qualsiasi patto tra popoli e categorie sociali. È sull’inaccettabilità di questa ingiustizia che va costruita una strategia nuova per un’Europa che rischia di distruggere con la Grecia, se stessa. Purtroppo l’esito della riunione dell’eurogruppo di ieri segna un passo in avanti verso ulteriori disastri.

Chi paga le conseguenze

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Quando l’indebitamento di uno Stato supera la ricchezza che in quello Stato si produce in un anno – ha sostenuto qualche tempo fa sul suo blog l’economista greco diventato ministro – l’errore più grave che si può commettere è che esso venga ripagato da chi non l’ha prodotto. Che i figli paghino per le colpe dei padri. Che le persone oneste sopportino con le tasse future l’onere delle corruzioni passate. Questo sbaglio sarebbe letale. Non solo per la coesione di una società, ma anche dal punto di vista dell’efficienza del sistema economico e, dunque, della sua stessa capacità di onorare il debito. È evidente, infatti, che la riallocazione di risorse attraverso le tasse da categorie produttive a quelle che non lo sono più o che, addirittura, sono abituate a distruggere valore, uccide definitivamente un’economia in sofferenza. In questo senso la colpa più grande dell’Europa è quella di aver affrontato la crisi discutendo solo di valori assoluti della spesa pubblica e mai della sua composizione. Di aver preteso di fare troppo (le riforme di cui, da Bruxelles, si riesce a controllare solo il nome senza mai, davvero, entrare in contenuti che dipendono da un contesto che è locale) o troppo poco (il vincolo del deficit sul Pil). Senza mai entrare nel merito di come risorse scarse venivano allocate tra possibili usi che hanno differente capacità di produrre crescita. Senza mai preoccuparsi davvero, come farebbe un qualsiasi curatore fallimentare alle prese con la ristrutturazione di una banale azienda, che si eviti un trattamento discriminatorio e irragionevole tra i creditori.

Il fallimento della Troika

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Del resto, per la Grecia il fallimento della Troika è scritto proprio nei numeri del debito pubblico: quando il Paese è andato sotto la tutela del Fondo Monetario Internazionale, della Commissione e della Banca Centrale Europea il rapporto tra debito pubblico e Pil era al 130%. Oggi dopo cinque anni il rapporto è del 175% e il debito è aumentato persino più di quanto non si sia ridotto il Pil (nonostante che sia già tecnicamente avvenuto un default con l’imposizione ai creditori privati un dimezzamento del valore a scadenza dei titoli). Ciò equivale a dire che il paziente sta peggio di quando è entrato nel reparto di terapia intensiva e ciò non può non sollevare una responsabilità del medico, che si affianca a quella del paziente prima del ricovero. Una responsabilità nei confronti dei cittadini greci, specialmente quelli più giovani che non hanno avuto modo di evadere il fisco o truccare i conti. Ma anche dei creditori ai quali tassi di interesse sul mercato secondario sempre più elevati non bastano per compensare la perdita sul capitale iniziale.  E allora come curare la malattia evitando di colpire chi è ancora sano? Aldilà delle boutade elettorali di Tsipras sulla riassunzione degli statali e le difese ad oltranza della Troika da parte della Merkel, una strategia nuova deve focalizzarsi su cambiamenti strutturali che sono di trasferimento di risorse da aree di privilegio a settori a più alta produttività. Ed è assai difficile che sia la Troika a guidare il cambiamento (meglio sarebbe l’Oecd come suggeriscono i Greci) non solo per i risultati ottenuti ma perché essa è portatrice di un approccio macro che assume, appunto, che ciò che faccia la differenza sono le risorse che immetti in un sistema economico e non quanto intelligentemente le usi.

In Italia

In un Paese come l’Italia basterebbero poche misure, in fin dei conti. Rompere il tabu dei diritti acquisiti cessando di pagare ai pensionati – al di sopra di una certa soglia – la differenza tra assegni previdenziali e contributi effettivamente versati e usando integralmente i risparmi per aumentare i finanziamenti ad asili, scuole e università (riservando parte delle risorse aggiuntive a premiare i dirigenti e gli insegnanti più bravi, come sta facendo il Ministro dell’Istruzione Stefania Giannini). In maniera da migliorare la crescita potenziale di lungo periodo del Paese e diminuire il numero di mamme che non partecipa al mercato del lavoro perché non sanno a chi lasciare i bimbi in età prescolare. Massimizzare la confisca di patrimoni accumulati da corrotti e corruttori attraverso la concessione di forti sconti di pena per chi si pente (proprio come succede per la mafia e propone Raffaele Cantone), destinando interamente il ricavato all’abbattimento del debito pubblico. Così da alleggerire la zavorra che ci schiaccia facendo pagare l’operazione a chi ci ha affossato, senza indulgere in atteggiamenti vendicativi che non hanno nulla di pragmatico. L’effetto combinato sarebbe una riduzione della pressione fiscale che è il vero stimolo di cui l’economia italiana ha bisogno. Il trucco per rendere una simile ristrutturazione politicamente accettabile è quello di legare – in maniera evidente a tutti – il risparmio che si fa in un’area di privilegio, ad un investimento in un settore a più forte potenziale di crescita. Una ricetta che superi la guerra di trincea tra i custodi dell’austerità e quelli che pretendono di resuscitare Keynes che sarebbe il primo a far rilevare che c’è qualche differenza tra gli Stati Uniti degli anni 30 e l’Europa cento anni dopo. Né di sinistra, né di destra. Una terza via che parta dalla consapevolezza che si esce dalla crisi non rimpicciolendo in maniera lineare (come pretendeva Monti) ma cambiando in maniera radicale. È questo il terreno sul quale si misurerà la capacità dei leader più giovani di rilanciare un progetto europeo logorato dalla paura di chi vede diminuire un benessere che riteneva acquisito.

Francesco Grillo

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