La gente ha sempre dichiarato di voler creare un futuro migliore.
Non è vero. Il futuro è un vuoto che non interessa nessuno.
L'unico motivo per cui la gente vuole essere padrona del futuro
è per cambiare il passato.

Milan Kundera

I “cunti viventi” dell’anti Camilleri in una trama memoriale di luce, profumi, colori ed emozioni

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Ogni uomo è un racconto, una storia a sé originale e insostituibile. “Cunti con le gambe siamo, cunti viventi” scrive Giuseppe Lazzaro Danzuso pubblicando i suoi appunti di storie familiari lasciati decantare per diciassette anni in un cassetto, un po’ per pigrizia e un po’ per quel pudore antico che è ormai merce rara. “Ritorno all’Amarina” – Fausto Lupetti editore – è un libro autobiografico, ma i brani di memoria che racchiude accomunano generazioni diverse nate nel Sud alle soglie del boom economico degli anni Sessanta. Le prime che beneficiarono dell’austera agiatezza prodotta dalla ricostruzione postbellica e da quel collettivo rimboccarsi le maniche dei padri che, nel Mezzogiorno come nel Nord, fece risorgere il Paese dalle ceneri del Ventennio e del conflitto mondiale. Ed è al padre  deceduto pochi anni fa che il giornalista-scrittore catanese dedica alcuni dei passaggi più significativi del volume.  Sulla pagina facebook che prende spunto dal libro alcuni brani letti dall’autore e le scene di vita familiare fissate da una cinepresa quasi mezzo secolo fa.

Ironico, divertente, a tratti commovente il cuntu di Lazzaro Danzuso ricorda quei profumi o quei sapori improvvisi che rimandano a un’emozione dell’infanzia, a un affetto che non hai più,  a un luogo caro che hai abitato. Il libro – scritto in dialetto siciliano – ha il calore delle serate estive trascorse in un cortile di campagna in compagnia di familiari e amici. Quando un cielo stellato, il bagliore di un fuoco e qualche bicchiere di vino o di amarena favorivano il fluire dei racconti. L’amarina appunto, dalla pianta che dava nome alla campagna dei Lazzaro alle falde dell’Etna e che dà titolo al volume.

A motivare l’autore anche l’impellente necessità di non disperdere un ricco patrimonio memoriale da tramandare  a figli e a nipoti. Ci salveremo se non perderemo la memoria di quando eravamo più poveri, ha affermato   Ferruccio De Bortoli presentando il suo nuovo libro. Volumi come Ritorno all’Amarina hanno il pregio di apparire perfino fuori moda nell’epoca dell’eterno presente che rottama ogni ieri e con esso le radici di una comunità, le sue identità individuali e collettive. Lazzaro Danzuso mette assieme storie familiari e ricordi della sua Sicilia, la terra che porta nel cuore nel momentaneo esilio romano. Ed è partendo da quei tre anni vissuti nella Capitale che si dipana la matassa del racconto.

Il 31 dicembre del 1999, vigilia del nuovo secolo, è giorno di bilanci. L’autore si interroga sulla porzione di vita trascorsa a Roma e conferma il proposito di rientrare in Sicilia. L’attesa di una telefonata che tarda ad arrivare, e che dovrebbe annunciargli un’offerta di lavoro che lo riporterebbe nell’isola, fornisce l’occasione per tornare al passato e a quella terra che il libro propone come ventre materno accogliente e sicuro. Il confronto che emerge tra il quotidiano tran tran romano e il bagaglio di affetti, relazioni, esperienze lasciato in Sicilia provoca una struggente nostalgia. Un languore noto a quei siciliani che non si adeguano al continente e che non risparmia chi si è integrato nel contesto nuovo dove vive e lavora. L’isola come serbatoio di consuetudini, atteggiamenti, modi di pensare inossidabili attraverso i quali misurare il rapporto tra il centro del mondo, la terra dove sei nato appunto, e una pur magnifica periferia dove ti conduce la vita.

Andrea Camilleri  racconta che Leonardo Sciascia non riusciva a stare lontano dalla Sicilia e che a Parigi si barricò in albergo e si ammalò. “Gli telefonai – ricorda – Come ti senti? Risposta: male assai. Per l’influenza? Si, si l’influenza. Ma poi sentirmi ghittatu ‘ca a Parigi…Capito? Buttato qua a Parigi – commenta Camilleri – come se fosse stato in esilio in un paese del Terzo Mondo…”.  Lo stato d’animo che Lazzaro Danzuso riversa nel suo libro evoca la consumata distinzione tra siciliani di scoglio e siciliani di mare aperto. I primi che superato lo Stretto sentono mancare la terra sotto i piedi, i secondi che prendono il largo mantenendo con l’isola un legame indissolubile che diventa flusso vitale, ossigeno indispensabile per respirare. In Ritorno all’Amarina l’autore racconta le serate romane a casa di un amico catanese. “Travagghia ccà da tant’anni e mi dice ca poi unu si abitua – commenta –  Ma a casa sua sempre pieno di siciliani è”. Di scoglio o mare aperto che sia, in sostanza, chi è nato nell’isola vive la lontananza con maggiore o minore trasporto, ma non taglia mai il cordone ombelicale che lo lega alla sua terra.

Parliamo prevalentemente  di chi è cresciuto in Sicilia nell’altro secolo. Per i figli della globalizzazione che cercano altrove esperienze di vita e occasioni di lavoro, la contaminazione nel mare aperto del mondo lascia poco spazio alle suggestioni della Sicilitudine e alla dimensione del ritorno come progetto di vita. Punti di eccellenze, creatività ed intelligenza che nell’isola non mancano rischiano di proporsi come oasi nel deserto senza  istituzioni efficienti capaci di mettere al primo posto il bene collettivo. E rimane profondo il fossato che separa una terra che continua a proporsi  irredimibile dalle opportunità che offre un  mondo che cambia vorticosamente.

La Sicilia che Lazzaro Danzuso descrive nei suoi cunti è la terra della natura prorompente, della luce che abbaglia, dell’afa che stordisce, dei caratteri a tinte forti scolpiti nella lava, delle donne che governano sconfinati nuclei familiari con sapienza antica. Dal momentaneo esilio romano l’autore racconta un’isola lontana dalla mala pianta mafiosa, dalla corruzione, dal clientelismo, da istituzioni inefficienti o asservite ai poteri criminali. Sulle pagine del libro scorre una terra senza lati oscuri, immunizzata dal ricordo nostalgico delle sua bellezze trionfanti. Una Sicilia come tutti noi vorremmo che sia. E il miraggio di un’isola che galleggia indenne sul magma delle contraddizioni che la zavorrano potrebbe indurci da lontano a minimizzare o ad assolvere. Provvede la cronaca giornaliera poi a riconciliare il sentimento con la ragione e a riproporci la realtà per quella che è.

Non è l’intento assolutorio comunque quello che persegue Lazzaro Danzuso. Il suo racconto si muove dentro i confini di una personale ricerca di senso e di radici. E la scoglio dove tornare è la Sicilia perbene di un’agiata e rispettabile famiglia isolana con il suo esercito di zie, prozie, nonne, cugini, fratelli, genitori e amici. Il flashback dei ricordi rimanda così al rito estivo della villeggiatura nella grande masseria alle falde dell’Etna di contrada l’Amarina. Dall’infanzia alla giovinezza, dall’età adulta alla scelta del giornalismo, fino al trasferimento nella Capitale: il percorso a ritroso dell’autore mette a fuoco anche l’identikit di una intera generazione che – lo scrive Dora Marchese nella seconda di copertina – “si è impegnata nella estenuante maratona che le ha fatto percorrere in soli cinquanta anni diversi millenni”.

Elemento centrale è l’uso del dialetto, ma il siciliano di Lazzaro Danzuso non ammicca al successo televisivo del commissario Montalbano. Le pagine risalgono al 1999, epoca lontana dalla serie Tv che ha rivelato al grande pubblico i libri di Camilleri. Il testo rimane fedele alla parlata di Adrano, il paese in provincia di Catania dove l’autore è nato e ha trascorso parte dell’infanzia. Il recupero di molti termini arcaici a rischio di estinzione, elencati e tradotti in italiano nel glossario che chiude il volume, è parte integrante della necessità di interrogare la memoria che l’autore avverte con prepotenza in una fase particolare della propria vita. E l’uso del dialetto dona al racconto autenticità e calore. Anche il successo dei libri di Camilleri  è legato all’uso del siciliano. In Ritorno all’Amarina però si sviluppa un meccanismo diverso. Alcuni critici hanno osservato che il modo di esprimersi del commissario Montalbano è il risultato di un’operazione dall’alto, di un processo colto, di un’invenzione originale frutto dell’innesto del siciliano sul tronco dell’italiano. Lazzaro Danzuso è un po’ l’anti Camilleri da questo punto di vista. Il suo è uno scavo archeologico alla ricerca di reperti dialettali sotterrati dal fluire del tempo e che risultano di facile comprensione anche ai non siciliani. Un’impresa meritoria che mette in evidenza il dialetto come lingua “del cuore e dei sentimenti” nell’epoca in cui prevale la tendenza a sfregiare storia e culture. Illuminante da questo punto di vista il ritorno all’Amarina che Lazzaro Danzuso organizza con i figli per ritrovare i luoghi dell’infanzia molti decenni dopo.

Un avvertimento. Visitando l’Etna non cercate la grande masseria descritta nel libro, provereste una delusione analoga a quella dell’autore. Il vento della modernità senza memoria ha cancellato il nome antico che richiamava le ciliegie rosse dell’amarena e lo sciroppo che dava vita alla bibita descritta nelle prime pagine del volume. Un cartello stradale indica oggi in quei luoghi Contrada La Marina. Un’impertinente bacchetta magica si è premurata di trasferire la campagna di Adrano su una spiaggia dello Jonio.

 

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