Non apprezzo e non apprezzerò mai la mancanza di dialogo. Non apprezzo e non apprezzerò mai chi offre il proprio punto di vista come assoluto. Non apprezzo e non apprezzerò mai chi decide deliberatamente di calpestare diritti e volti a fronte di interessi evidentemente personalistici.
A distanza di giorni fatico ancora a vedere le immagini di chi è morto, forse consapevolmente, solo per la possibilità di vivere un giorno in più se non fosse partito. E sono stanco di vedere parate di uomini in giacca e cravatta che tenendosi per mano manifestano la falsità di una pace solidale che veramente non li riguarda. Da Parigi alla Tunisia stiamo assistendo oramai alla putrefazione di un mondo che sembra sempre meno conoscere il significato della parola stabilità. Ed è inutile negare che questo rappresenti l’interesse di molti, almeno di tutti quelli che lucrano forsennatamente sulla morte e sugli assassini.
Sono giorni che non facciamo altro che sentire inutili teorie su come rendere meno dolorosa la morte a centinaia di migliaia di persone che partono tutti i giorni da paesi evidentemente in lotta: perché chiunque di noi abbia un minimo di cervello sa benissimo che solo la realizzazione di un corridoio umanitario tra nazioni potrebbe salvare loro la vita.
Sono figlio di un uomo che lasciò il meridione per cercare lavoro: aveva veramente una scatola di cartone legata con lo spago, come quelle che si vedono nelle foto d’epoca che però in troppi non vogliono ricordare più. E posso solo immaginare cosa abbia significato per lui; solo sentire la sofferenza delle umiliazioni che può aver subito. Come milioni di terroni italiani che si presentavano al nord, per poi leggere cartelli sulle trattorie con su scritto: “Qui non si accettano meridionali”.
Non oso pensare a tutti quelli che hanno lasciato il nostro Paese per migliaia di chilometri di lontananza: anche loro viaggiavano su dei barconi, anche per loro c’era la fame. Ma basta ragionare su quest’obiezione, da alternare alle immagini di giorni come questi, che c’è subito chi urla alla banalità, al perbenismo di una sinistra radical, al buonismo di chi dovrebbe prendersi i clandestini dentro casa. Anche se tutto questo è semplicemente umanità. Sia essa cristiana, laica o di qualsiasi altro sentimento profondo che anima le coscienze di chiunque non sia amorfo.
Perché quei morti non sono clandestini, sono migranti.
Tuttavia, c’è solo una cosa che quasi più mi addolora rispetto a centinaia di morti, ed è il fatto che noi italiani, gente di passione e d’amore, stiamo facendo della nostra momentanea aridità morale una questione razziale. Questo non per indole, quanto più perché a nostra volta disperati. Questo perché ci sono persone – che neanche avrebbero la dignità di essere chiamati politici -, che vivono per far passare il messaggio che il diverso, il colorato, lo sconosciuto siano loro il nostro problema, sono loro coloro che stanno distruggendo il Paese. Questo perché altrimenti qualcuno dovrebbe giustificare chi veramente ha distrutto la nostra bella penisola.
Allora smetto di guardare quelle immagini alla televisione, smetto di ascoltare le soluzioni subitanee che decine di geniali strateghi e tattici della politica nostrana ed europea trovano per risolvere quelle morti e dare un nome al colpevole. Ma smetto perché in realtà colpevole sono anche un po’ io, siamo tutti noi. Sono tutti quelli che ancora volontariamente danno spazio alla logorrea di chi non se ne frega assolutamente nulla di quanto accaduto, se non nei termini secondo i quali tutto potrebbe portare un’alterazione dei sondaggi elettorali.
Guardo al futuro, alle nuove generazioni e spero in loro, nella loro comprensione, nel loro essere migliori di quanto non siamo stati noi.
Oggi penso a quel mare, a quei colori, che non dovrebbero mai tingersi di rosso, se non quando il sole scende giù e s’immerge, ma solo per rinascere il giorno dopo. Mentre le persone non lo fanno più.
Giampiero Marrazzo