La mutilazione per cui la vita perdette quello che non ebbe mai,
il futuro, rende la vita più semplice,
ma anche tanto priva di senso.

Italo Svevo

Regno Unito. La crisi del New Labour e le fragilità del sistema politico

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Con le elezioni del 2015 in avvicinamento, il Regno Unito vede di fronte a sé aprirsi le incognite che hanno tratteggiato la politica del paese negli ultimi anni: la crisi del New Labour, la questione dei benefit agli immigrati provenienti dall’Unione Europea, l’ineguaglianza e le criticità di una nazione dove il bipolarismo di Londra sembra non funzionare più.

Gli ultimi mesi sono stati mesi di preoccupazione per il partito laburista britannico. Il suo leader, Ed Miliban sconta un crollo nella fiducia degli elettori nel loro candidato: solo il 35% si dichiara soddisfatto di lui (66% dopo le elezioni del 2010). Nonostante infatti le intenzioni di voto attestino i laburisti al 29%, sono in leggerissimo calo rispetto al 2010, la pressante campagna estiva avviata per riparare ai danni di alcune uscite non proprio felici di Miliband si è rivelata debole – secondo l’analisi di Jeremy Cliff – sotto due punti di vista: la percezione dei lavoratori come una massa indistinta, e l’idea di poterli manipolare fingendo di aderire a tutte le loro proposte all’approssimarsi delle elezioni. Di fronte alle contraddizioni di questi anni di crisi, si è insomma arenato il progetto lanciato nel 1997 da Tony Blair, il cosiddetto New Labour, una sinistra britannica decontaminata dalle ideologie della Guerra Fredda.

Il fattore Ukip

Il progetto di Blair, figlio in parte di una nuova speranza, in parte di un calcolato e superficiale progressismo, rivela le sue crepe oggi più che mai nel partito che sarebbe dovuto essere radicale non nella dottrina, ma nei risultati, un partito di idee e ideali, ma non di superate ideologie. Se infatti i laburisti sono stati dipinti dal Financial Times come in preda ad una mentalità da assedio in seguito ai numerosi attacchi a Miliband, non hanno neanche saputo analizzare la crisi di sistema in atto a destra, dove Cameron tenta disperatamente – e non senza un certo cinismo – di arginare l’Ukip. Anzi, la questione immigrazione ha particolarmente diviso il partito e i membri del governo ombra guidato da Miliband, ponendo un problema particolarmente serio per un qualsiasi movimento di centro-sinistra: tentare di contrastare il fenomeno, o semplicemente ignorarlo? Non è cosa secondaria, per due ragioni: innanzitutto, problematizzare la presenza degli immigrati e delle minoranze può portare sia alla loro demonizzazione (secondo Goldhagen), sia alla razionalizzazione delle paure dei cittadini, e quindi ad una soluzione positiva per tutti (secondo Giansante); in più, si tratta di una spia della scomparsa di una idea di sinistra che porta i laburisti a seguire i conservatori di Cameron, che a loro volta inseguono Farage e l’Ukip.

FarageÈ a questo punto che inizia ad apparire con chiarezza come la crisi dei laburisti non sia che la facciata evidente di un malessere più profondo. Lo scambio a distanza tra Angela Merkel e i Conservatori britannici riguardo l’offensiva del governo di Cameron sugli immigrati provenienti dall’Ue è una delle tante voci di una battaglia politica che rivela il panico tra i Tory di fronte al continuo avanzamento dell’Ukip (arrivato al 14%). Nonostante la cancelliera tedesca abbia ribadito il diritto dei cittadini dell’Unione di vivere e lavorare in Gran Bretagna, il Cancelliere dello scacchiere George Osborne ha subito ribattuto che il governo continuerà a fare gli interessi dei cittadini britannici. L’arrivo della sentenza della Corte di Giustizia Europea a riconoscere il diritto della Germania di negare i sussidi a chi si trovasse nel paese da meno di tre mesi ha fornito un’ulteriore spinta alla politica di Cameron.

Sono infatti mesi che il primo ministro britannico pratica una politica isolazionista a tratti vergognosa. La scelta di non finanziare il salvataggio dei migranti che attraversano il Mediterraneo è stata accolta con parole durissime da Amnesty International, che titola in un suo post: “Ci può essere mai una giustificazione per lasciare le persone affogare nel Mediterraneo?”; ugualmente durissimo è stato il commento sul Guardian di Suzanne Moore, per la quale si parlerebbe di “migranti, rifugiati e richiedenti asilo non come umani ma come una forma di infezione”, chiedendo provocatoriamente: “sono queste persone meno che ratti che lasciano una nave in procinto di affondare?”. Già, perché la Moore ricorda anche le parole della conservatrice Theresa May, secondo la quale le operazione di ricerca avrebbero l’effetto di incoraggiare l’immigrazione. Parliamo – per capirci – della stessa persona che spiegava come per ogni cento immigrati, ventitré britannici sono senza lavoro (solo per essere poi clamorosamente smentita).

In un sistema di alternanza, politiche di questo tipo sarebbero naturalmente equilibrate da un’offerta politica opposta, ma ridurre la questione ad un perfetto sistema bipolare sarebbe un errore. Non è solo Theresa May: il supporto per una restrizione dei sussidi agli immigrati europei è arrivato anche dalla laburista Rachel Reeves e dalla liberale Catherine Bearded. La compresenza in Gran Bretagna dei partiti laburista, conservatore e liberale da sola metteva sotto stress il sistema elettorale britannico, accordando questo i seggi messi in palio in ogni collegio solo al partito vincitore (e spingendo quindi i cittadini ad optare per i laburisti o i conservatori, così da non rischiare di sprecare il proprio voto). La presenza dell’Ukip ha ulteriormente messo in crisi questo sistema, dove ad oggi laburisti e conservatori detengono assieme appena il 60% dei voti, mettendo al centro delle dinamiche parlamentari la necessità di arginare i partiti anti-sistema. I conservatori hanno già provato a farlo nel 2010, formando un governo di coalizione con i liberali.

Il problema trasversale: la reputazione

Affrontare queste sfide significherà però guardare più a fondo nelle criticità strutturali nelle quali affonda le proprie radici l’attuale stagnazione politica britannica. Come sottolineato da Alberto Nardelli sul Guardian, le fragilità nella reputazione e fiducia accordata ai politici europei hanno portato ad una sistematica sofferenza dei partiti tradizionali. Assieme ad un trend discendente nella partecipazione al voto che si è invertito solo nel 2001 in Gran Bretagna e nel 2010 in Europa, questo segnale non può essere ignorato, ma anzi andrebbe inserito in una domanda molto più pesante: cos’è che sta andando così terribilmente male, in Gran Bretagna e nel continente?

New LabourGuardando ai dati di Ipsos Mori, appare chiaro quanto rapidamente si siano erosi tra i cittadini la fiducia nel governamento e nei principali leader (ad eccezione di Farage), ma anche come tra le tematiche di cui si dovrebbe occupare il governo siano cresciuti il terrorismo e la sanità, mentre diminuiscono l’economia, la disoccupazione e l’inflazione. Si evidenzia anche una ripresa dell’ottimismo riguardo la situazione finanziaria del paese, e rimane alta la percentuale degli individui felici della propria condizione (l’80%). Ad ogni modo – tanto per complicare le cose – i britannici sembrano pensare che gli immigrati siano comunque troppi (70% degli intervistati) e che la società in cui vivono sia una Broken Britain, cioè uno stato in fase di decadimento (alcolismo, gang, disoccupazione giovanile, maltrattamenti e gravidanza di minori).

Uno scenario complesso insomma, sul quale i partiti britannici si sono mossi in maniera a volte contraddittoria o contrariamente alle aspettative. Ma soprattutto uno scenario che va allargato a livello europeo, perché ad essere in crisi è un sistema, un modo di intendere la società che ha il suo nucleo proprio in Gran Bretagna, e precisamente nella City di Londra. Si parla della persistenza di problemi socio-economici a scapito del più rapido e indolore affondo sugli immigrati, sceso vertiginosamente negli ultimi due mesi, ed ora citato come principale problema solo dall’8% degli intervistati. Si tratta – nelle parole di Will Hutton – della realtà che i britannici hanno paura di affrontare, una realtà fatta di rallentamento della crescita, debito privato, produttività in calo e crisi finanziaria. Si tratta di un sistema finanziario predatorio, dello smembramento delle istituzioni civili, di un sistema nel quale ancora l’influenza dei genitori condiziona le possibilità di successo dei figli, dove la flessibilizzazione del mercato ha indebolito i sindacati, mentre si incentivava l’accentramento del potere finanziario, specialmente nella city.

Di nuovo citando Hutton, si tratta insomma di ineguaglianza, in crescita per tutti gli anni ’80, e solo in leggero calo, ma sempre rispondente ad un trend che riguarda l’intero gruppo dei paesi Ocse. Quella del New Labour è insomma una crisi che rivela le fragilità del sistema politico e sociale britannico, prontamente fuoriuscite nel momento di massimo stress del paese. Ma è anche la risposta ad una crisi di rappresentanza a livello europeo che necessita di risposte chiare, fino ad oggi non ancora pervenute.

Francesco Finucci

L'Autore

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