La mutilazione per cui la vita perdette quello che non ebbe mai,
il futuro, rende la vita più semplice,
ma anche tanto priva di senso.

Italo Svevo

#Saharawi: sotto il tallone del Marocco

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Laayoune – Quella dei Saharawi è una storia che non fa notizia, volutamente ignorata dai media perché fa meno rumore di un video dell’Isis, di un kalashnikov o di una bomba. Da troppi anni, infatti, la questione del Sahara Occidentale è un frozen conflict finito nel dimenticatoio, mentre nel silenzio proseguono indisturbate costanti violazioni dei diritti umani. Sono stata in questo stato sconosciuto a molti, situato a sud del Marocco ed erroneamente considerato un’estensione territoriale di quest’ultimo. Giusto il tempo di raccogliere una ventina di testimonianze, dopodichè, le autorità marocchine mi hanno fermata insieme al fotoreporter che era con me, interrogata, minacciata, obbligata a salire su un auto che, violando il mio diritto alla circolazione, mi ha deportata in piena notte a 10 ore di distanza, verso Agadir. In poche parole, espulsa dal Sahara.

La storia di Said Hadad

foto Saharawi

Foto di Stefano Schirato, diritti riservati

Tra i tanti che ho intervistato, mi rimane impressa la storia di Said Hadad, 31 anni. A lui non è bastato nascere Saharawi, è anche disabile. Sorseggia il suo tè “amaro come la vita, dolce come l’amore e soave come la morte” (così i Saharawi chiamano i tre momenti del tè, n.d.r.), mentre mi racconta delle manifestazioni pacifiche a cui prende parte. E ogni volta, puntualmente, viene brutalizzato dai poliziotti marocchini. Ma Said non si ferma davanti a niente e continua a scendere in strada, nel quartiere Saharawi di Laayoune, denominato Ma’atala, dove avvengono le proteste non-violente. Said manifesta anche se i gendarmi dello Stato lo hanno gettato nella spazzatura, obbligato a bere la loro urina, denudato e violato con una bottiglia, pestato, ferito e torturato. “Nel 2005 -racconta- le autorità marocchine mi hanno picchiato talmente forte da mandarmi in ospedale. Lì, non hanno voluto soccorrermi, mi hanno detto di farmi curare dal Polisario (il Fronte Popolare di Liberazione del Popolo Saharawi, n.d.r.), e io gli ho risposto che questa è la nostra terra e che dovevano andarsene. A quel punto, mi hanno spinto con tutta la sedia a rotelle dalle scale. Sanguinavo copiosamente quando sono rinvenuto”. Said continua la sua resistenza all’occupazione del Marocco e non gli importa niente di morire: “Non abbiamo scelta, nasciamo attivisti. È un nostro dovere a qualunque costo”. Sono in tanti a soffrire come Said, soprattutto i giovani, come il quattordicenne Mahmoud, al quale la polizia ha spaccato un braccio mentre tornava da scuola. A Tal’b, stessa età, è toccata la stessa sorte. El Mousaoui ha solo 8 anni e gli hanno rotto la mandibola con un calcio in faccia, mentre giocava con gli amichetti nel cortile di casa.

Chi sono i  i Saharawi

Foto di Stefano Schirato, diritti riservati

Foto di Stefano Schirato, diritti riservati

Abitanti dal XII sec. del Sahara Occidentale, terra occupata militarmente dal Marocco nel 1975, i Saharawi vivono separati da un muro minato di 2.700 chilometri che spacca in due il deserto. Metà sono profughi in Algeria da 40 anni, metà restano a casa loro, nel Sahara Occidentale, in attesa di un referendum per l’autodeterminazione garantito dall’Onu -che non si è mai tenuto-, mentre i gendarmi marocchini schiacciano con la violenza ogni singulto di protesta. L’occupazione del Marocco, come indicato nei rapporti di Amnesty International e di Human Rights Watch, è caratterizzata da una repressione violenta ed arbitraria degli attivisti Saharawi con arresti ingiustificati e processi sommari. Dal ’75 a oggi, 4.500 Saharawi sono vittime di sparizioni forzate; 500 i desaparecidos. Nel 2010, il Marocco ha ammesso 640 casi di incarcerazioni illegali ma rimane a tutt’oggi impunito.

Qualcosa sta cambiando?

Tuttavia, da pochissimi giorni, l’impasse decennale sulla questione del Sahara Occidentale potrebbe subire un’inaspettata frenata a vantaggio del rilancio di una seria trattativa sotto l’egida delle Nazioni Unite. Diversi elementi cospirano a favore dei Saharawi: la risoluzione dell’inviato Onu, Christoper Ross, l’aggravarsi della situazione del vicino Mali e di tutto il Sahel e, quindi, un rinnovato interesse verso una stabilizzazione dell’intera area da parte di Stati Uniti, Francia e Spagna. “Radan, Inshallah”, direbbero i Saharawi. Domani, se dio vuole.

 

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Jenny Pacini

L'Autore

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