Che ognuno avrà il futuro che si conquisterà.

Gianni Rodari

TRA LA TERRA E IL CIELO. IL CINEMA INDIANO NON E’ SOLO BOLLYWOOD

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Uscito in Italia nel giugno del 2016, “Tra la terra e il cielo” è l’ esordio cinematografico del regista indiano Neeray Ghaywan, che nella sua opera dipinge un affresco di forte impatto visivo ed emotivo dell’India dei nostri giorni. Non quella antica e “obsoleta” (secondo il pregiudizio degli occidentali); né quella musicale e spensierata di “Bollywood” (secondo il cliché del cinema indiano). Quella descritta è un’India “tecnologica” e occidentalizzata, in cui i giovani sono consapevoli delle proprie possibilità di studio e di realizzazione personale: la mentalità di chi sa che esiste un altro mondo al di fuori del proprio paese d’origine e desidera raggiungerlo per sfuggire alle soffocanti tradizioni, spesso utilizzate come strumento di condizionamento, e al rigido sistema delle caste, paralizzante e stigmatizzante.

Il regista racconta due storie. La prima è quella di una studentessa (Devi) che durante un rapporto sessuale con un suo coetaneo viene fotografa da un poliziotto corrotto, che estorce ingenti somme di denaro al padre della donna (Sanjay Mishra), per non far nascere uno scandalo.

La seconda è quella di Deepack (il convincente Vikcy Kaushal), un giovane studente prossimo alla laurea, che si innamora di una ragazza che appartiene però ad una casta molto più elevata della sua. Egli infatti fa parte dei “paria”, considerati impuri ed intoccabili, perché figlio di un addetto alle cremazione dei cadaveri lungo le sponde del Gange.

In entrambi i casi i protagonisti sono costretti a subire le regole di un sistema al quale non credono (anche il padre di Devi, un bramino progressista, è combattuto tra la preoccupazione della figlia e il rispetto della tradizione), rimanendo soli davanti ad una realtà alla quale erano convinti di poter sfuggire.

Emblematico in tal senso il “Masaan” (non a caso titolo originario della pellicola), il rogo crematorio in cui lavora Deepack . Un vero e proprio “inferno” all’aperto, che brucia ininterrottamente sulle rive del fiume e costringe chi vi lavora ad assistere alla lenta e orripilante consumazione dei cadaveri. Una “schiavitù” che si eredita di generazione in generazione, un “cerchio” di morte impossibile da spezzare che getta bagliori scarlatti sulle vicine acque sacre, le stesse che di giorno sembrano fondersi col cielo. Una scena dall’ incredibile forza espressiva che condensa tutta l’amarezza del film; una metafora sulla complessa ambivalenza dell’India, capace di offrire scorci meravigliosi e unici, ma anche di imprigionare e rendere succubi, come se si trattasse di una maledizione.

Ma dietro all’angoscia e al senso di claustrofobia c’è anche la speranza, che l’autore fa riemergere dalle acque limose del Gange, in un’atmosfera da fiaba che “gioca” con la ciclicità del karma, positivo e negativo, tipica della  concezione orientale.

La regia di Ghaywan trova la sua forza nelle immagini – splendida la fotografia che immortala i paesaggi del Gange di giorno e di notte –  ma anche nella capacità di alternare registri diversi nella stessa pellicola, passando dalla delicata poesia con cui viene raccontata la storia d’amore tra i due giovani, all’intensità dirompente delle scene più drammatiche (tra cui anche il crudo e spiazzante incipit).

Ben riuscito anche l’intreccio delle due storie parallele che si sfiorano leggermente, per incontrarsi con eleganza nel finale.

In tal senso la struttura ricorda il film “Babel” di A.Inarritu, in cui storie tra loro molto diverse sono accomunate da collegamenti indiretti, spesso marginali, in una “babele” di solitudini che si avvicinano l’un l’altra senza mai comunicare.

Per quanto riguarda il cinema indiano,invece, le sequenze che ritraggono il fiume, rievocano “Water” di Deepa Metha, in cui si racconta la condizione delle vedove in India (costrette a vivere in comunità isolate dalla società civile perché considerate indegne). Le condizioni e il contesto storico raccontati sono diversi, ma comune è l’onnipresenza del fiume, vera e propria metafora naturale dell’India e con esso anche lo scopo di denuncia e il desiderio di cambiamento, di fuga dalle opprimenti caste. Nel film della regista indiana, addirittura, l’abbandono del proprio paese diventa l’ unica soluzione per essere davvero liberi.

 

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