La mutilazione per cui la vita perdette quello che non ebbe mai,
il futuro, rende la vita più semplice,
ma anche tanto priva di senso.

Italo Svevo

Un Mughini invecchiato nella sua “stanza dei libri”

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arton145422-57292Giampiero Mughini è nato a Catania e lì ha trascorso venticinque anni. Poi per dirla con D’Annunzio – che con Marinetti se le diede di santa ragione – è andato verso la vita. Anche se la vita, intesa come sesso, in gioventù qualcosa gli aveva già regalato. La Sicilia non l’avrebbe certo aiutato a coltivare le passioni: collezioni di prime edizioni, di cataloghi, di libri «bellissimi e inusueti» – ci sarebbe da leccarsi le dita – di quaderni avanguardisti e neoavanguardisti. O magari sì, chissà.

Il futurismo, nella sostanza nato in Africa dai propositi di re Mafarka, è quel rincorrere lo stupefacente con la magia di mille deroghe. Pensate, molti futuristi erano siciliani. In Sicilia si portano i santi in spalla, in Sicilia si grida al miracolo per una “Cavalleria Rusticana” con tanto di accoltellamento. Lì il bello è “ufficialmente” questo ed è stramaledettamente pubblicizzato. Colpa della “cultura siciliana”, oggi né più e né meno che erba infestante. Colpa del boom economico e del turismo di massa per cui si comandò di trasformare spazi invivibili – frequentati da un’elite capricciosa – in contenitori di bellezza (vera? falsa?) e in luoghi d’evasione a perdita d’occhio. E dire che i veristi erano amici dei futuristi, qualcosa come cento anni fa. Beffa delle beffe, nel frattempo – delitti di mafia a parte – poco o nulla è cambiato. Dunque, chi ama l’arte contemporanea o la fa è giusto vada via per non subire la tortura dei tipi alla “siciliana”. Da una parte i “decatleti” della parola, coloro che concedono tutto allo spettacolo ma che una gara seria con campioni seri non la vincerebbero mai. Dall’altra gli “etichettatori”, le figure più grossolane che abbia mai conosciuto. Quelli che danno nomi importanti a ruderi e “monnezza”, nella speranza di guadagnare punti per una graduatoria delle intelligenze. Convinti che se lo scarafaggio lo indichi come “Periplaneta americana” sarà per forza di cose più attraente.

Di più, conosco fior di collezionisti che si danno arie da professori con doppia laurea ma che non sono mai andati oltre pagina sette di un libricino qualunque. Perfino di un giornalino della Bianconi. Conosco burocrati della cultura, carne e (poco) sangue di uno sprezzante analfabetismo di ritorno. Studio e collezione s’attaccano ai due emisferi del cervello e stentano a parlarsi. Forse per questo in Sicilia nelle biblioteche private trovi più roba che in quelle pubbliche. Settore pubblico che per uno “scherzo della storia” non è affatto per il pubblico ma per un privato che ha famiglia da campare e casa da pagare. Mughini era perfettamente a conoscenza delle cancrene sicule quando dopo il Sessantotto prese armi e bagagli e salutò bionde e more. Con studiata leggerezza cede il pregio della diplomazia e in diverso ordine ripete il ripetibile.

In generale però c’è qualcosa che non va nella nuova fatica dell’ormai juventino d’Italia, “La Stanza dei libri” (Bompiani). L’impressione che quella filosofia da “Whatever Works”, che dava forma a ragionamenti maturi a fasi alterne dei giovani degli anni ottanta si sia impadronita dell’ex collaboratore di “Libero”. Come si trattasse di una sorta di film horror ma dal finale più o meno scontato. Mughini è del 1941 e nel periodo del terrorismo aveva grossomodo trent’anni. Con ogni probabilità l’opposizione alla brutalità, sottolineata e risottolineata nel libro, vantava basi ideali e politiche di più salda natura. C’è una sorta di elaborazione postuma – benedetta – che lo ha come reso impermeabile alle “ragioni” – se ragioni c’erano – di chi a quel tempo stava dall’altra parte. Erano tutti criminali, tutti assassini? Può darsi o probabilmente no. Ma c’erano motivazioni che spingevano alla violenza che andrebbero “ideologizzate” e non solo “contrastate” alla maniera di un poliziotto che utilizza pensieri e parole al posto del manganello. Sennò come si diceva una volta è solo blanda reazione borghese. Vada per i nomi delle fidanzate, d’accordo sul particolare “colore dei capelli” (di rame? d’oro? d’argento?), ma un intellettuale – parafrasando Pino Rauti – dovrebbe pur sprecarlo qualche periodo sulle idee che mossero quel mondo tanti anni fa.

Caro Mughini, cari tutti, accordiamoci sul fatto che una pur misera sillabazione teorica rende più di una serie di insulti. Altrimenti è guerra (in)civile di parole. Certo glorificato spirito liberale dovrebbe venir fuori proprio nei momenti di vivace contrasto. Parola d’ordine: io non sono come il mio “nemico”. Attenzione però a non confondere morale, opportunità e politica. Perché la politica, la morale se la mette in tasca. Alle sragioni si replica con ragioni di altrettanta natura sennò si parla una lingua incomprensibile. Chi crede che oggi l’Occidente o come direbbe De Niccolò, la “civiltà detta occidentale” meriti un trattamento violento – Mughini cita in proposito il terrorismo islamico – non smetterà di coltivare l’arbusto delle verità rivelate, perché si sa le rivoluzioni non sono pranzi di gala e via discorrendo. Sono dalla parte di Mughini ma non basta dire che i brigatisti dentro e fuori dal carcere erano assassini; meglio spiegare invece a chi pensa che il pianeta si nutra di crimini dai tempi di Abele perché le ideologie “pazzerelle” andrebbero contrastate. Altrimenti la casetta di carte si affloscia, altrimenti “non funziona”.

Negli ottanta funzionava perché nuove “utopie” borghesi riempivano il quotidiano benessere. I filosovietici del mezzo secolo successivo li avresti presi a pernacchie. Non devo spiegarlo a Mughini il verbo liberale: prometti una casa, un orticello, un buon lavoro, il pane, il circo e tutto il resto puoi dimenticarlo. Oggi però la devi raccontare in un’altra maniera. Perché sennò si dà l’impressione di essere vecchi – di aver voglia di mandare tutti a quel paese come gli anziani alla fermata dell’autobus – anche se da intellettuale non di maniera vivi per nutrire lo stupore, anche se la restante parte della “Stanza dei libri” ha la freschezza del viso di una liceale. Dal racconto dei volumi praticamente impossibili («libri che ho comprato e che amo alla follia») alle citazioni garbatamente porno, dai fotografi francesi e americani ai periodici belli e possibili della “Nuova sinistra”. Sette vani di casa Mughini, traboccanti meraviglie (polvere) e ricordi. La cultura ha forma e sostanza di una spossante materialità. Ho quasi pianto – faccio per dire – per la biblioteca futurista che l’autore ha dato via un giorno di non molti anni fa.

L'Autore

Marco Iacona dieci libri, quattro saggi per Nuova storia contemporanea. Più di un milione di caratteri spazi inclusi, cinquemila per l’intervista a un Nobel. Si post-occupa dell’America di George Simenon e della Francia di Woody Allen. Studia storia e idee del Movimento Sociale Italiano con baconiana incoscienza.

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