Il futuro entra in noi, per trasformarsi in noi,
molto prima che accada.

Rainer Maria Rilke

L’uomo e le alte vette. Da sant’Agostino a Petrarca a Lindsay

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nepalFra le vittime del terremoto nel Nepal ci sono gli scalatori. Qual è il rapporto culturale e antropologico con le grandi altezze? Vengono in mente le parole di S. Agostino nelle Confessioni. «E gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti e gli enormi flutti del mare, le vaste correnti dei fiumi e il giro dell’Oceano e le rotazioni degli astri, e non si curano di se stessi». Ma non è una citazione casuale. Non più da quando proprio queste righe balzarono sotto gli occhi a Francesco Petrarca aprendo a caso una pagina del volume del vescovo d’Ippona. Lo portava con sé nell’ascesa del Monte Ventoso, in Provenza, 1.909 metri di altezza.

Per un uomo di cultura perfino i momenti più impervi non si possono disgiungere dal proprio retaggio di letture. Allora, contemplando il panorama dalla vetta, Petrarca cercò il conforto di Agostino. Era il 26 aprile 1336 e, per la storia, l’escursionismo di montagna cominciò quel giorno. Petrarca compì la scalata con il fratello, monaco, e due altri amici, per scriverne ipso facto in forma epistolare a Francesco Dionigi. Dalla data della lettera e dal riferimento del poeta alla circostanza di aver lasciato la città di Bologna dieci anni prima, si ricava la collocazione cronologica dell’impresa. Che assume il valore di un traguardo mistico. Petrarca specifica trattarsi del venerdì santo, nel quale si commemorano la Via Crucis, l’ascesa al Golgota e la morte di Gesù Cristo. È di quest’ultimo e della simbologia messianica che il poeta cerca di sperimentare l’essenza fisica. Nella sofferenza della scalata, Petrarca vede la possibilità di un doloroso affrancamento dalla schiavitù della carne, e dunque dall’amore fisico per Laura, per giungere a contemplare un’estasi spirituale così distante, anche orograficamente dal suolo. Le sue pause lungo il percorso, dunque, non dipendono da una minore esperienza di montagna rispetto a quella del fratello Gherardo, bensì al ripetere gli accenti di purificazione dell’itinerario di Gesù verso la croce. Ed è questa la metafora che tiene anche al di fuori dell’ambito propriamente religioso.

L’impulso verso le grandi scalate si rinnovava man mano che le esplorazioni allargavano le conoscenze geografiche. Tanto da avere insegnato ad ogni nuova generazione, perfino oggi, che il mondo era ancora e sempre da scoprire, insieme a se stessi. Forse in quei frivoli e cancellabili anni ’80, magari la notte prima degli esami, si è innescato un preoccupante processo di strati­ficazione derivato dalla televisione commerciale, berlusconiana, che ha rasentato e infine è sfociato del tutto nella parodia. La capacità di sopravvivenza, il survivalismo, divenne un hobby di massa, di quelli che tutt’ora impegnano le preziose risorse della protezione civile quando gli incauti si abbandonano alle avventure fuori pista. Ne ha risentito l’ecologia, con poggi di alta montagna invasi di buste abbando­nate da comitive che il lunedì mattina o dopo la “settimana bianca” vantano la «scalata all’av­ventura». L’alpinismo vero rimane un esercizio dell’intelligenza e, come si è visto con Petrarca, dello spirito, una sfida a se stessi prima ancora che alla natura. Lo dimostrano i numerosi romanzi ambientati nei cosiddetti reami perduti, quasi tutti a grandi altezze.

Esponenti di questo genere narrativo furono due inglesi: H. Rider Haggard e Talbot Mundy. Il primo è notissimo per Lei e Le miniere di Re Salomone, in cui fa la sua comparsa Allan Quatermain, nepalesploratore avventu­riero che precorre Indiana Jones. Quanto a Mundy, fu esploratore e viaggiatore prima ancora che autore di articolate traversie ambientate in città perdute, la cui ricostruzione risulta così credibile e minuzioso da far sospettare che l’autore le abbia realmente visitate. La montagna conserva un’aura inesplicabile e inespugnabile in tutte le epoche e ad ogni latitudine. Il Purgatorio, il Carmelo, il Golgota e più indietro il Sinai del decalogo sono varianti cristiane della simbologia delle alture. I Sumeri vedevano in ogni monte l’Uovo del Mondo, la massa primordiale indifferenziata. Nello Shuōwén Jiězì, il dizionario cinese del II secolo dovuto alla Dinastia Han, l’ideogramma della montagna è «produttrice dei diecimila esseri». Qualcosa che rimanda a Cibele, come il nome indigeno dell’Everest: Chomolugma, «Dea Madre del Mondo». Ruyard Kipling pensa di certo a questo potenziale misterico scrivendo L’uomo che volle farsi re, trasposto in un indimenticabile film da John Huston. Peachey Carneham e Daniel Travot, i due scanzonati massoni che s’inerpicano fra le montagne del Kafiristan, subiscono un’attrazione di natura ultraterrena che li porta alla rovina. Scambiati per dei dagli indigeni, si rive­lano miseramente umani, in una parabola nietzschiana che ha per autentiche prota­go­niste le montagne della zona.

Il nobile polacco Ferdinand Ossendowski pubblica a Parigi nel 1924 Bestie, uomini e dei, il diario della sua fuga ai confini meridionali della Russia scon­volta dalla guerra civile. Ossendowski è stato ministro delle finanze nel go­verno bianco dell’ammiraglio Kolchak, combattendo contro i bolscevichi in difesa della Siberia e della Mongolia con la divisione asiatica di cavalleria del barone Roman Fiodorovic von Ungern-Sternberg. La caduta del Governo Siberiano, retto dai «bianchi» di Kolchak, costringe Ossendowski alla macchia, attraverso le foreste dello Jenissei e la Mongolia. Qui raccoglie le leggende su Agarthi, un reame sotterraneo, nel cuore di montagne sconosciute. Ma si tratta di un luogo fisico o non piuttosto di uno stato interiore? Agarthi è la metafora di una per­fezione che si raggiunge attraverso la completa co­noscenza di se stessi. Ma non per caso la sua ubicazione è montana. James Hilton vi si ispirerà per il suo reame incantato di Shangri La, nel romanzo Orizzonte perduto.

Nella no­vella Monte della Verità, la scrittrice inglese Daphne du Maurier narra di un tempio situato a grande altezza in un Paese senza nome che è l’Italia. Il protagonista vi giunge con la sua donna, che abbraccia il culto delle “sacerdotesse”, come gli abitanti del luogo chiamano le misteriose abitatrici del tempio. All’uomo non rimane che ascendere il Monte della Verità per scoprire il destino dell’amata. Le “sacerdotesse” sono esseri andro­gini come gli angeli, che una volta erano uomini o donne comuni ed hanno scoperto un’estasi della vetta che, con la rinuncia del sesso, dona loro l’immortalità.

Altro superbo apologo sulle alture è Picnic a Hanging Rock, il romanzo dell’australiana Joan Lindsay portato sullo schermo da Peter Weir. Un gruppo di ragazze scompaiono in cima al monolito del titolo. Soltanto una di loro torna indietro, ma non ricorda nulla. Si tentano spiegazioni razionali: ma­gnetismo o un buco nel continuum spazio-tempo, analogo a quello ipotizzato nel Triangolo delle Bermude. Ma la forza che le ha attratte verso il monolito è di na­tura tutt’altro che fisica. Viene da dentro se stesse, specie in quella Miranda che pare un’incarnazione della Primavera di Botticelli. In cima a Hanging Rock, le ragazze scom­parse hanno tro­vato ciò che probabilmente il resto dell’umanità cerca in­vano qu­aggiù.

Enzo Verrengia

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