Il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta.

Paul Valéry

Addio a Mario d’Urso, l’ultimo gentiluomo

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mario d'ursoLa paginata di necrologi sul Corriere della Sera; l’articolo di Paolo Conti poche pagine più indietro ne restituiscono la superficie di una storia umana che apparentemente sembrerebbe la quintessenza della mondanità. Mario d’Urso, il più cosmopolita dei napoletani di prestigio e ruolo sociale non c’è più a contrassegnare un jet set internazionale di cui Roma, specialmente dopo la sua morte, è una specie di periferia dell’Impero, stretta com’è in circoli sempre più chiusi per la paura di contaminazioni, attraverso i nouveaux riches di estrazione ‘Mafia Capitale’ e cloni malavitosi in colletto bianco. Quest’uomo alto ed elegante poteva apparire, a chi non ne conoscesse l’animo generoso e prodigo di umana accoglienza, un dandy ricco e sfaccendato, frequentatore compulsivo di salotti stemmati e accompagnatore di signore upper class. Volontariamente o involontariamente, era quella la nebbia con cui si avvolgeva, come uno scudo per mostrare il vero sé stesso solo a coloro a cui concedeva davvero la propria amicizia. Erra su tutta la linea, però, chi, ricorrendo a facili generalizzazioni, lo accomuna a un Jep Gambardella con il valore aggiunto di una madre titolata.

Il cinismo, l’ennui, il disprezzo verso un mondo di cui era un saprofita travestito da capobranco posseduti dal personaggio del film di Sorrentino erano agli antipodi dal valore interiore di Mario d’Urso, il quale conservava, evidente solo a chi concedeva di scorgerli, un’innocenza e un caldo coinvolgimento amicale assolutamente rari. Dunque, l’ultimo gentiluomo: da parte materna, Mario discendeva dai Serra di Cassano, famiglia partenopea di un’aristocrazia che aveva dato un martire alla Rivoluzione del 1799 contro la monarchia borbonica, replicandone quei tratti di nobiltà d’animo che  emergeva nei suoi rapporti umani con chiunque, senza un’ombra di spocchia. Sotto il profilo femminile, posso confessare che era estremamente ‘consolante’ incontrare i modi attenti e premurosi di Mario; fruire dei suoi consigli saggi arricchiti dal suo intenso vissuto in ambienti finanziari ed imprenditoriali (anche grazie all’esperienza accumulata a cominciare da quando, dopo un master a Washington, lavorò, giovanissimo, ai vertici della Lehman Brothers).

Pare quasi incredibile che si sia spento, sopraffatto da un male che pudicamente ha tenuto celato al mondo. Di lui i mario d'urso giornali fanno celebrato una mitografia smaltata che lo vide, nei decenni, accanto a donne celebri come Jacqueline Kennedy – a cui fece scoprire i sandali capresi o che accompagnò nei luoghi magici della Divina Costiera Amalfitana, o la triste, inquieta sorella di Elisabetta II d’Inghilterra, Margaret. Non è però emerso – o non abbastanza – l’uomo ‘speciale’ che Mario fu, attento agli altri, virtù così demodé ai giorni nostri. Ecco, appare controcorrente che io definisca demodé un personaggio che appariva quasi come l’icona di un principe il cui reame era l’alta società. Ed invece, quest’antinomia punta al Mario d’Urso ‘vero’, colui che seppe coltivare valori essenziali del convivere: l’amicizia, la gentilezza, il garbo, la tolleranza, l’allegria, l’ascolto. Io, invece, voglio restituirli alla consapevolezza di tutti, affinché non si lascino ingannare dall’immagine patinata proiettata, per scarsa conoscenza della persona o per pigrizia mentale, negli epicedi che di lui hanno pubblicato i media. Mario, dal sorriso tranquillizzante; Mario, che ti guardava negli occhi e ti leggeva nel cuore. Stavolta, a baciarti la mano, a dirti arrivederci sono io.

Annamaria Barbato Ricci

 

 

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