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Gianni Rodari

Compiti a casa: il patto di corresponsabilità tra genitori-figli-docenti

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Nei seminari di riflessione sulla scuola che teniamo con i docenti capita spesso di dover dedicare una particolare attenzione ai rapporti di conflittualità che nascono tra genitori e docenti. Una delle problematiche più ricorrenti è quella relativa al docente in conflitto con quel genitore il cui bambino presenta problemi di apprendimento e di conseguenza difficoltà nelle sue performance scolastiche. “Il mio bambino è bravo e intelligente. Non capisco cosa succede in classe”: è questa la frase tipo di un genitore che noi docenti analizziamo nel corso dei nostri gruppi di formazione.

Appare ovvio che per arrivare ad un minimo di chiarezza sulla reale condizione del bambino in questione occorrerà mettere sul tappeto parecchie questioni, perché le variabili socio-affettive ed educative che stanno dietro ad un comportamento scolastico siffatto sono numerose e variegate e non mi pare il caso di affrontarle in questa sede. Ciò che è interessante, ai fini del nostro discorso, è invece la possibilità di abbattere o quanto meno mitigare la conflittualità di quel rapporto. In tal caso le conseguenze sull’educazione e sulle capacità di apprendimento del bambino sarebbero enormemente positive.

Il Pec

fare i compitiLa scuola italiana- nonostante il suo stato di salute nei fatti precario – ha alle sue spalle principi educativi di tutto rispetto, che tuttavia, nella maggior parte dei casi, vengono completamente disattesi: è questo il caso del Pec (Patto educativo di corresponsabilità). Vuoi per la complessità della normativa che affligge la scuola, o per la malsana ed endemica burocratizzazione delle nostre istituzioni, il germe di energia positiva che potrebbe far fare un salto di qualità ai rapporti tra le tre componenti del triangolo educativo (docenti-genitori-alunni) stenta purtroppo a svilupparsi. Nato qualche anno fa (DPR 24 giugno 1998, n. 249, modificato dal DPR n. 235 del 21 novembre 2007-art. 5-bis), il Pec discende dalla grande virata di bordo ideologica e normativa operata dai Decreti Delegati del 1974, che segnarono l’avvio della partecipazione dei genitori e degli studenti nella gestione della scuola, “dando ad essa il carattere di una comunità interagente con la più vasta comunità sociale e civica.” Il Pec, sottoscritto dai genitori affidatari, dai docenti coinvolti e dal Dirigente Scolastico, rafforza il rapporto scuola/famiglia in quanto nasce da una comune assunzione di responsabilità e impegna entrambe le componenti a condividerne i contenuti e a rispettarne gli impegni. Una volta che il patto è stato stilato e controfirmato dalle parti nei termini di “chi decide”, “chi accetta” e “chi condivide cosa” – formalizzato come un contratto, dove “la scuola nella persona del docente si impegna a (…)”, “il genitore si impegna a (…)”, “l’alunno si impegna a (…)” – risulterà più facile individuare in caso di insuccesso scolastico ciò che non ha funzionato. Quanto meno sarà più chiaro ad ognuna delle parti – prima di avviarsi nell’impresa – cosa dovrà fare per portare a termine l’opera.

L’importanza del gioco delle parti

Così, tanto per dirne una, difficilmente ci potranno essere scusanti o alibi per il genitore che tenta di informarsi durante le lezioni (di continuo, telefonicamente) se si concorda tutti insieme che è proibito lasciare acceso il cellulare in classe. E che succederà di fronte al problema dei compiti a casa, campo di battaglia delle idee più contrapposte, dove si incontrano e scontrano pregiudizi di ogni sorta, arroganze, astuzie, piccoli sotterfugi? Anche qui, a ciascuno il suo in un affannoso e stressante gioco delle parti. Quando si firma un patto di corresponsabilità educativa non potrà succedere che una mamma, o qualunque persona di riferimento che conti nella gerarchia degli affetti (in perfetta buona fede, ma fortemente convinta della giustezza della propria visione pedagogica a buon mercato), esprima apertamente in famiglia – in presenza del bambino – il proprio dissenso sul carico di lavoro impostogli dai suoi insegnanti.

Il triangolo bambino-genitori-insegnanti

come-aiutae-bambino-letturaSempre con riferimento ai compiti a casa, un possibile accordo condiviso da tutti – secondo Achim Schad, noto pedagogista clinico tedesco – potrebbe essere il seguente. I genitori determinano il tempo da impegnare per i compiti a casa; il bambino rimane da solo a studiare nella sua stanza godendo alla bisogna del loro aiuto, il che non significa affatto che essi gli fanno i compiti: tanto aiuto quanto basta, possibilmente il minimo indispensabile. Allo scadere del tempo a disposizione si smette di fare i compiti; se il bambino manifesta la volontà di continuare a studiare, è libero di farlo ma da questo momento in poi senza più l’eventuale aiuto dei genitori. E’ fondamentale che lo “standby genitoriale” si limiti ad un segmento di tempo determinato, oltre il quale stop, nessun commento, nessuna recriminazione, nessun lamento da parte dei genitori. Una volta a scuola, come prima cosa, l’insegnante controllerà e commenterà i compiti non fatti cercando di trovare delle soluzioni strategiche alle difficoltà incontrate dal bambino; così facendo, diventerà egli stesso l’autorità di riferimento in faccende scolastiche, come è giusto che sia.

In caso di perplessità sulla performance scolastica del bambino, i genitori dovrebbero tentare di trovare un accordo col docente sul miglior modo possibile di utilizzare le descritte regole famigliari in maniera efficace; nel contempo il bambino imparerà così, alquanto presto, a rendersi autonomo e a sbrigarsi. Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, ma questa volta è un tratto di mare navigabile.

Nicola Corrado

L'Autore

2 commenti

  1. concordo sui contenuti dell’articolo sebbene, il disaccordo che insorge con i genitori riguardo i compiti a casa è conseguenza di molti più fattori. Il tempo da dedicare è solo uno di questi infatti, il concordare il tempo non risolve quei casi in cui l’insegnante affida ai genitori il compito d’insegnare a casa così come capitò spesso a me che pur non essendo un insegnante dovetti trovare un metodo per insegnare a mio figlio durante le vacanze estive di seconda elementare le tabelline oppure, quando da tecnico elettronico dovetti improvvisarmi insegnante di meccanica. Insegnare così come fare un qualunque altro lavoro non è facile. Ogni attività richiede impegno, passione e la capacità di trovare soluzioni anche creative alle difficoltà. Troppo spesso si nota poca passione nella professione, scarse capacità e nessuna voglia d’impegnarsi a migliorare soprattutto nel metodo ed è questo che più dei compiti fa arrabbiare i genitori a casa che fanno altri lavori e pur di restare competitivi sono disposti a pagarsi il proprio aggiornamento. Ovviamente e per fortuna, questi comportamenti non sono di tutti anche se questi pochissimi riescono a procurare danni enormi a tutta la comunità. Il patto Educativo di Corresponsabilità è in sostanza un contratto e nella scuola sarebbe superfluo se tutti usassero il codice del buon senso.

    • Nicola Corrado il

      Innanzitutto grazie per il commento. Certamente il disaccordo con i genitori è frutto di numerosi altri e variegati fattori, come lei afferma. Il riferimento ai compiti a casa e al tempo da dedicare ad essi era soltanto un esempio tra i tanti da me usato per rendere l’idea più fruibile. In effetti la condivisione a priori sul lavoro scolastico (dei docenti come degli alunni) dovrebbe servire ad evitare proprio i fraintendimenti tra le parti e a trovare accordi sui vari segmenti del lavoro didattico, sui metodi di studio da adottare (nel caso da lei citato), sulle soluzioni a problemi emergenti durante il processo di insegnamento-apprendimento, insomma su tutto ciò che riguarda la vita della comunità scolastica. La condivisione prima e corresponsabilità dopo dovrebbero governare l’azione educativa in modo tale da evitare qualsivoglia alibi che potrebbe nascere a discolpa dell’insuccesso scolastico della parte più debole del triangolo in questione.

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