Matteo Renzi in certi posti non va. Non si sa se fedele alla linea dettata da Nanni Moretti in Ecce Bombo: «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?». Sta di fatto che il gran rifiuto del premier – dopo il Meeting di Rimini – si è abbattuto anche su uno dei riti più importanti dell’estate politico-economica italiana: il workshop dello Studio Ambrosetti di Cernobbio, il seminario che riunisce le alte rappresentanze politiche ed economiche per elaborare previsioni. «Vado dove le imprese investono» ha spiegato con la solita franchezza Renzi, ribadendo ancora una volta la distanza che intende tracciare con i corpi intermedi, con i gruppi di pressione, con le categorie di rappresentanza. E, certo, il premier va alla Festa de l’Unità e prima ancora al raduno scout: ma nell’uno e nell’altro caso si è trattato di bagni di folla o, come a Bologna, di conquistare per la prima volta la piazza del suo partito.
Renzi, invece, preferisce “saltare” la mediazione con alcuni (salvo che non siano Giorgio Napolitano o Mario Draghi) sui dossier economici e di sviluppo e tirare dritto. Una novità di carattere antropologico, soprattutto a sinistra, che dalla sua porta alcune opportunità ma anche rischi ed ambiguità di fondo. Di tutto questo FUTURO QUOTIDIANO ne ha parlato con Stefano Bruno Galli, professore delle Dottrine e delle istituzioni politiche all’Università di Milano, analista che conosce bene i ceti produttivi del Nord e che – al netto di una vitale e necessaria reazione alla “vecchia politica” – a Renzi rimprovera però la necessità di una doverosa interlocuzione con quella che chiama «la società di mezzo».
Professore, ha incuriosito la scelta di Renzi di non andare a Cernobbio, al Workshop Ambrosetti. Il premier ha preferito “visitare una fabbrica”, ossia un’importante rubinetteria a Brescia. Che messaggio è?
Vuole dare un messaggio di responsabilità istituzionale, dimostrando di essere consapevole della gravità del momento dal punto di vista economico e sociale. In realtà evita il confronto, anche perché dovrebbe ammettere che, dopo roboanti proclami, abbiamo visto assai poco di concreto.
Il premier non è andato nemmeno al Meeting di Cl, così come all’appuntamento di Confindustria. Cos’è, la fine di una certa liturgia, fatta di relazioni con i poteri forti o presunti tali?
Da un lato intende scardinare le liturgie di una politica vecchia, che ha fatto il suo tempo e che aveva i suoi ‘santuari’. Nello stesso tempo però, come dicevo prima, evita il confronto. Evita di essere messo nelle condizioni di dover ammettere la debolezza e l’inconcludenza dell’azione di governo sui grossi temi, a cominciare dalla crisi economica e sociale, dal lavoro e dalla politica industriale. È da almeno trent’anni che questo Paese non ha una politica industriale seria e coerente. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Ah, ovviamente non è andato nemmeno al congresso della Cgil…
La CGIL era la cinghia di trasmissione del vecchio Pci nelle fabbriche: ovvio che Renzi la consideri una sorta di zavorra per il cambio di passo post ideologico, che intende dare al partito. E non accetta condizionamenti, soprattutto se questi hanno l’imprinting della vecchia politica.
C’è chi vede in questo atteggiamento di Renzi una sorta di ritorno del primato della politica.
Più che perseguire il disegno di un rinnovato primato della politica, Renzi vuole piuttosto incarnare il nuovo, voltare pagina e dare nuova forma a un sistema politico instabile e destrutturato, bipolare per effetto della legge elettorale, ma non bipartitico. E in questo è ammirevole. Ma è limitato per quanto riguarda la cultura politica e istituzionale ed è supportato da una squadra spesso non all’altezza. Il Paese si merita di più.
Fin dall’ inizio il premier ha utilizzato una forma di comunicazione senza mediazione. Parla direttamente alla telecamera: come hanno dimostrato le sue conferenze stampa. Perché lo fa secondo lei?
Renzi ha l’idea di un rapporto diretto tra lo Stato e il cittadino, tra il Governo e la società. A confermarlo non solo le sue conferenze stampa, ma anche l’idea di ordine politico che intende imporre, riducendo al silenzio comuni, province e regioni, luoghi della democrazia di prossimità e di rappresentanza della società di mezzo. Non solo giornali e giornalisti, dunque. I grandi padri del liberalismo, tuttavia, ci hanno insegnato che un rapporto diretto e non mediato fra lo Stato e il cittadino rappresenta una deriva molto pericolosa. Toglie i necessari meccanismi di pesi e contrappesi nelle dinamiche politiche e istituzionali e costituisce l’antiporta dell’autoritarismo.
Sulla carta Renzi ce l’ha con l’establishment, il cosiddetto “capitalismo di relazione”. Ma quali sono allora i poteri che stanno con Renzi?
Bisognerebbe chiederlo a lui. Di fatto, continua a rilanciare la palla e prima o poi arriverà il momento in cui non riuscirà più a prenderla. Ma in un momento del genere, così difficile per quanto riguarda il lavoro e l’occupazione, l’economia e la crisi sociale, il paese non ha bisogno di proclami e plebisciti. Ha bisogno di competenza e di serietà, ha bisogno di squadre capaci e preparate dal punto di vista culturale. La leadership che incarna Renzi, quella dell’uomo solo che catalizza consenso, è vecchia, sul modello Seconda repubblica. Se vuole davvero voltare pagina dovrebbe mutare anche la fisionomia della propria leadership e rendersi conto della complessità dei problemi e delle questioni politiche che non si possono sempre banalizzare.
La diamo una pagella a questi sei mesi di Renzi?
Un primo bilancio sul renzismo si può fare: 10 e lode nella policy, impacciato e confuso nella polity, non pervenuto nelle policies. Mi spiego. Renzi è fortissimo nella comunicazione politica e nel parlare alla ‘pancia’ della gente, ma è incerto nel determinare il perimetro ideologico della sua azione politica, spesso calpestando la tradizione e il patrimonio culturale del suo stesso partito ma dimostrando di avere un’idea piuttosto sfilacciata del liberalismo. E passa da provvedimenti grillini come la svendita delle auto blu a provvedimenti berlusconiani come gli 80€ in busta paga.
In effetti la “sinistra Pd” ha interrotto la “tregua” col governo.
L’unica riforma approvata, ma si tratta solo del primo passaggio su quattro, è quella dello stesso Senato e del Titolo V della Costituzione. Riforma che è stata approvata in modo ‘stiracchiato’, tra frizioni e polemiche, e che cancella con un colpo di spugna la gloriosa storia del regionalismo: una storia che è stata scritta in prevalenza dalla sinistra. Renzi cancella così la cultura politica del suo partito senza rendersene conto. Un vero e proprio cortocircuito.
Danilo Patti