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Abraham Lincoln

‘Nutrire l’Impero’, storie di alimentazione

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alimentazioneLa globalizzazione dei consumi non è una prerogativa della nostra società. Infatti nell’ Impero romano dal II° al IV° secolo d.C. fioriva un libero scambio commerciale intorno al bacino del Mediterraneo. Prodotti di ogni genere provenienti da Africa, Spagna ,Gallia, Egitto, viaggiavano all’interno dei suoi vasti confini segnati dalle espansioni territoriali delle campagne di guerra da Augusto a Costantino, per raggiungere i capisaldi e scaricare le merci a Roma , Pompei e Pozzuoli. “Nutrire l’Impero” è una mostra che sulla scia dell’Expo 2015 ha voluto dedicare uno spazio a Roma, nell’ambito del Museo Ara Pacis, per illustrarci una storia sull’alimentazione e sui traffici commerciali del mondo romano di questo periodo, attraverso reperti archeologici, apparati multimediali e ricostruzioni. In questa area geografica altamente produttiva venivano trasportate tonnellate di provviste, soprattutto di beni primari. Il grano veniva distribuito alla plebe gratuitamente e dal III° sec. d.c. in poi anche il vino e la carne . I reperti in esposizione, divisi per sezione, ci mostrano una ricostruzione del movimento delle merci trasportate su navi che seguivano determinate rotte per giungere nei due principali punti di arrivo, il porto di Traiano a Roma, la più vasta e popolosa metropoli dell’antichità, e l’altro, dislocato nell’area vesuviana, con particolare riguardo a Pompei, Ercolano e Oplontis. Dai vari affreschi, vasellami e utensili abbiamo la visione di un mondo organizzatissimo nell’affrontare la lavorazione dei beni primari, come per esempio il pane che era importantissimo e di cui ci sono giunti reperti carbonizzati dalla lava dell’eruzione vesuviana, insieme a vari cereali e mandorle. Da tutta questa varietà di oggetti emerge quanta importanza i romani dessero all’arte culinaria e ai suoi principali artefici, i cuochi, che, insieme ai fornai, erano ruoli fondamentali in quell’epoca. Pare che Eurisace fosse, tra questi ultimi, uno tra i più famosi, visto che tra i reperti c’è la raffigurazione di una tomba a lui dedicata.

I cuochi erano quasi tutti di provenienza orientale e non esistevano ricette, ma soltanto loro creazioni del momento in cui dovevano preparare i cibi, a seconda dei gusti del loro padrone, spesso esigente. Insieme alle pentole , padelle, scaldavivande e teglie di ogni forma, tutte lavorate in bronzo, appare anche una grattugia, che stupisce per la sua precisa somiglianza con quella che ognuno di noi ha in casa. Una rassegna di anfore in terracotta, diverse tra loro, che dovevano contenere vino ed olio,consente di immaginare, insieme ad alcuni disegni, come avveniva il confezionamento dei liquidi , l’immagazzinamento e l’inserimento, con preciso ordine, delle anfore stesse nelle stive delle navi, dopo essere state contrassegnate con incisioni a seconda delle destinazioni. Anche allora esistevano i bar o tavole calde i “thermopolia”o “popinae”, dove si poteva fare un “mordi e fuggi” di certo più tranquillo e meno rapido dei nostri fast food, anche perché, invece di tornare al lavoro come noi dopo un pranzo fugace magari in piedi , i romani, dopo aver consumato, andavano alle Terme. In questi posti, oltre ai cibi conditi con l’onnipresente “garum”, una salsa di pesce, allora molto in voga, proveniente spesso da Cartagine, veniva servito del vino allungato con acqua o miele. Per i pranzi raffinati, che si svolgevano soprattutto nelle case dei ricchi o delle persone autorevoli, il pranzo veniva consumato nei “triclinia”, sale in cui i commensali mangiavano stando semidistesi su tipici lettini da banchetto, che possiamo osservare nei numerosi affreschi e mosaici pompeiani.

Nell’ambito della mostra che proseguirà fino al 15 novembre è esposto il famoso “tesoro di Moregine”, che prende il nome da una località vicino Pompei, già ospite del Metropolitan Museum di alimentazioneNew York. Si tratta di un corredo da tavola in argento a testimonianza della preziosità e del lusso delle tavole patrizie di contro alla ceramica e al vetro utilizzati nei contesti più popolari. In uscita da questa cornice storica che ricostruisce una parte essenziale delle abitudini quotidiane dei nostri avi troviamo a parete una copia dell’Editto dell’Imperatore Diocleziano per calmierare i prezzi dei prodotti e regolamentare le retribuzioni dei vari mestieri e professioni. Il pesce era caro anche a quell’epoca, 24 dinari contro i 12 della carne di maiale che era più costosa di quella di bue. La lista dei prodotti riportati nell’iscrizione di questo Editto è lunghissima e dimostra quanto impegno abbia messo il giurista per frenare l’inflazione ed anche contrastare quel lusso sfrenato che poi portò alla caduta dell’Impero. E’ un dato curioso , quando si elencano i salari dei vari mestieri, e anche indicativo della prerogativa che contraddistingueva, nel bene e nel male, i romani in fatto di legge , la parcella dell’avvocato: in testa alla classifica delle retribuzioni con ben 1000 dinari per ogni causa più 250 per ogni istanza presentata al Foro. “Dulcis in fundo” l’esposizione di una raffinatezza, caratterizzata da piccoli teschi e scheletri , che somigliano tanto agli attuali “gadgets”, disposti in ordine sparso sulle tavole dei commensali. Essi rappresentavano la fugacità della vita che bisogna godere in tutti i suoi piaceri senza perdere tempo. ”Del doman non v’è certezza”.

Ines Di Lelio

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