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Alan Kay

Renzi l’annunciatore, mancata/e promessa/e

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Manca poco: il 21 settembre si saprà se sullo sblocco totale dei debiti della Pubblica amministrazione Matteo Renzi ha detto una balla oppure no. «Prendiamo l’impegno dello sblocco to-ta-le, non parziale, to-ta-le dei debiti della Pubblica amministrazione», scandiva bene le sillabe il neopremier nel febbraio scorso davanti ai senatori a cui aveva comunicato l’avviso di sfratto. Era il periodo dell’”annuncite acuta”, quello in cui – tra conferenze stampa, slide e fogli Excel – il premier incassava la fiducia parlamentare assieme a quella mediatica e intendeva mettere in pratica il suo slogan “Adesso”. Appena un mese dopo, sempre a proposito dei debiti, ribadiva il concetto: «Entro luglio sblocchiamo tutto», non immediato come sblocco ma comunque in tempi certi. L’ultima versione, poi, è «entro il 21 settembre»: tra una cosa e l’altra si è preso già due mesi in più.

C’era una volta #enricostaisereno…

Un impegno, saldare tutti i debiti della Pa, che attende solo pochi giorni per essere rispettato e rispetto al quale il presidente del Consiglio si è giocato una carta importante con il mondo dei ceti produttivi. Non solo con i produttori ovviamente. Ci sono gli insegnanti precari, le forze dell’ordine, gli impiegati statali che aspettano e chiedono lumi sulle altre scadenze e le promesse del premier. Ne va della sua credibilità, si dice e lo ribadisce lui stesso. E qualche dubbio su questa è pur legittimo averlo se, era ancora appena segretario del Pd, parlava così del governo che sulla carta avrebbe dovuto sostenere: «Noi vogliamo che il governo arrivi fino alla fine del proprio percorso con convinzione e saremo i più leali a dare una mano al tentativo di Enrico Letta». Si sa come è andata a finire: con quell’#enricostaisereno che ha preceduto di pochi giorni la fine del governo Letta e l’avvento, guarda un po’, del governo Renzi. Quello stesso Renzi che diceva: «La staffetta Letta-Renzi non è assolutamente all’ordine del giorno. Io, sia chiaro, sto fuori da tutto».

…e “una riforma al mese”

Una battuta, quel “stai sereno”, che è diventata ormai letteratura nelle cronache politiche come sinonimo di pugnalata alla spalle, di tradimento politico. Per capire, del resto, che Renzi con la parola data ha, per usare un eufemismo, un rapporto allegro, basta riascoltare la sua prima conferenza stampa da premier. Una vera e propria “televendita”, secondo molti osservatori, in cui il capo del governo annunciava la road map che avrebbe visto il Paese in marcia con una riforma al mese. Nell’ordine: riforme istituzionali a febbraio; Jobs Act e formazione a marzo; mentre tra aprile e maggio Pubblica amministrazione e fisco. Di queste solo una è alle fasi – ancora lunghe – di approvazione. All’interno c’erano anche misure di minor impatto macroeconomico ma dal forte richiamo demagogico – una era la vendita delle auto blu, che avrebbe dovuto fruttare alcune centinaia di migliaia di euro ma ad oggi sono state vendute appena una decina di autovetture – e altre, invece, che avrebbero dovuto rappresentare un’occasione di rilancio di un intero settore come il piano casa, rimasto bloccato.

Tutto in “cento giorni”? No al massimo “passodopopasso”

Insomma, se non sono state proprio tutte balle, per lo meno tra gli annunci e le realizzazioni uno iato c’è. Una vera e propria valanga di promesse, misure-choc quelle ventilate dal premier, che avevano creato un’aspettativa così ampia tra quell’opinione pubblica che è stata ulteriormente eccitata dagli annunci estivi del governo: riforma della scuola («150mila assunzioni») e taglio delle aziende municipalizzate («Da 8mila a mille»), programmi rispetto ai quali lo stesso Renzi ha dovuto frenare, non fosse altro «per non mettere troppa carne al fuoco»: dato che si è appena discusso del decreto Sblocca Italia e ai nastri di partenza vi è la riforma della giustizia. Peccato che fosse stato lui stesso, e i suoi ministri, ad aver annunciato – ops! – tutto ciò.

In mezzo si sono messi, però, i dati sull’economia e le rilevazioni Istat che registrano l’Italia in recessione. Lo ha dovuto ammettere Renzi: il Pil sarà «intorno allo zero e non è sufficiente per ripartire» («Possiamo crescere del 2%», diceva sicuro qualche mese fa), accontentandosi di dire che «l’Italia ha perso posizioni in questi anni: -2,4% nel 2012, -1,9 nel 2013, ora intorno allo zero. Abbiamo rallentato la caduta». Insomma, all’interno della comunicazione dell’ex rottamatore, rispetto agli inizi, sono cambiate tante cose a partire dal fatto che  i “cento giorni” con cui Renzi avrebbe dovuto cambiare vero all’Italia sono diventati i “mille giorni”, quelli del Passodopopasso.

Passi (troppo) lenti dopo gli spot…

Passi lentissimi su molti altri punti. A partire dalla nuova legge elettorale: quella che, secondo Renzi, «entro il 25 maggio» sarebbe dovuta essere operativa perché sennò «non andiamo da nessuna parte». Italicum che invece è ancora nella fase di trattativa politica sul nodo delle preferenze e delle soglie. E le pensioni? Un anno fa l’allora segretario del Pd apriva al contributo di solidarietà sulle pensioni alte, mentre oggi – dopo aver stoppato bruscamente l’eventualità ventilata dal ministro Poletti e dal commissario sulla spending review Cottarelli – ha chiuso e rinviato la discussione a data da destinarsi («Lo vedremo nei prossimi anni»). Che dire, poi, del vincolo del 3%, ossia del rapporto deficit/Pil? A inizio anno Renzi tuonava contro «un vincolo anacronistico», da sforare. Dopo qualche giorno a Palazzo Chigi e dopo aver incontrato Angela Merkel, il premier ha ridimensionato pesantemente la posizione: «L’Italia rispetterà gli impegni presi». Quanto al caso dei due marò nemmeno il malore capitato a Massimiliano Latorre è riuscito a sbloccare una situazione rispetto alla quale – eravamo a marzo – palazzo Chigi parlava di «rientro immediato dei nostri militari».

Giravolta sugli 80 euro.

Quello che nessuno si aspettava, però, è che Renzi cambiasse verso proprio sulle ragioni della misura che ha più fortemente voluto: «Gli 80 euro non erano pensati per aumentare i consumi», ha spiegato, ma «per una forma di giustizia sociale». Un vero e proprio capovolgimento di prospettiva – davanti alle analisi impietose sugli effetti (quasi inesistenti) degli 80 euro per il rilancio dell’economia – rispetto alla campagna lanciata a tamburo battente sull’effetto sui consumi che avrebbe dovuto «la più grande riduzione delle tasse mai avvenuta». Renzi stesso su Twitter lo assicurava: «Gli ottanta euro non sono elemosina, ma misura per rilanciare i consumi». Quale delle due è una balla? E delle tante sopra?

Antonio Rapisarda

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