Sogni, promesse volano... Ma poi cosa accadrà?

Gianni Rodari

Negli Usa dopo Ferguson torna di moda la canzone di protesta

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Era il 1964. Bob Dylan ‘abdicava’ quasi pubblicamente al proprio ruolo di cantante di protesta, dichiarando che non avrebbe voluto più scrivere per le persone, ma solo per se stesso. “Io non faccio parte di nessun movimento”, rimarcò autorevole, nonostante il successo di ‘Blowing in the Wind’. Abbandonò la canzone di protesta per abbracciare quella legata invece a questioni più personali. Non è stato solo il punto di svolta della carriera di Dylan, il suo gesto ha in qualche maniera anticipato quello che sarebbe stato a breve il tramonto del fenomeno della canzone che si identificava con le questioni portate avanti dal movimento per i diritti civili. Da quel momento in poi, in confronto a Bob Dylan, tutti coloro che hanno provato a cavalcare musicalmente le questioni del movimento non hanno avuto particolare fortuna. Nina Simone e Abbey Lincoln docet! Ma alla fine del 2014 la violenza razzista di Ferguson, gli omicidi Brown e Garner, ha portato nuovamente la canzone di protesta inaspettatamente in voga negli States. Complice il web ed anche il recente Grammy 2015.

L’omicidio di Michael Brown e di Eric Garner

Veniamo dunque ai giorni nostri. Due eventi in particolare hanno consentito alla canzone di protesta di riprendere forma. Siamo negli Stati Uniti. L’omicidio di Michael Brown e di Eric Garner scatenano anche sul web un’ondata di protesta come non se ne vedeva da un po’ di tempo negli States. I fatti in sintesi. È il 2014, a Ferguson, nello stato del Missouri, Michael Brown, un diciottenne afroamericano, viene ucciso a colpi di pistola da un agente di polizia. Non era in possesso di armi in quel momento, era solo sospettato di un furto commesso pochi minuti prima. Ne sono seguite manifestazioni e disordini proseguiti per più di una settimana. Eric Garner, invece, subito dopo e sempre nel 2014, sospettato di vendere sigarette di contrabbando, viene messo a terra e immobilizzato dall’agente di polizia Daniel Pantaleo. Viene alla fine soffocato. Di fronte alla decisione del gran giurì di non incriminare Pantaleo, ne seguono immediate manifestazioni di piazza e disordini. Dopo questi fatti, si è assistito alla comparsa sia nelle strade che sul web di migliaia di forme di protesta. Alcuni hanno intravisto in questo una forma di nuova movimentazione per la difesa dei diritti civili. Si concretizzano in pochissimo tempo migliaia di attivisti che partecipano alla campagna “Black Lives Matter” e “I can’t breath” con forme di protesta organizzate in tutte le parti del paese. Essi chiedono di porre fine a forme di razzismo ‘istituzionalizzato’ e alle forme di brutalità con cui spesso la polizia statunitense reagisce nei confronti degli afroamericani in particolare. E come in tutte le altre campagne di protesta per i diritti civili, la colonna sonora conta, caratterizzando il movimento proprio per l’utilizzo della canzone di protesta. Fra gli attivisti, artisti già noti oppure emergenti si sono proposti liberamente per dare voce alle ragioni degli afroamericani, scatenando una gara di solidarietà e di partecipazione civile intensissima.

Lauryn Hill canconi di protesta

Lauryn Hill

Mike Killer e Lauryn Hill

Il primo ad uscire fuori è stato Mike Killer, artista hip hop statunitense. Il video del suo intervento in pubblico in cui esprimeva tutto il suo cordoglio per la morte di Micheal Brown su You Tube è diventanto subito virale . Poi è arrivato il rapper J. Cole, pubblicando “Be free” , definita da subito dalla giornalista Ann Power della Npr con un tweet “la prima vera canzone di protesta sulla morte di Mike Brown. Evocativa e nello stile di Nina Simone”. E’ stata poi la volta di Lauryn Hill che ha riscritto alcuni versi del suo brano “Black Range” , già eseguito live nel 2012, per denunciare con esso la condizione di discriminazione razziale in cui sono costretti a vivere ancora oggi gli afroamericani negli Usa. Per l’hip hop o il rap è naturale affrontare tematiche di tipo politico. Ma mai come dopo i fatti di Ferguson la musica hip hop si è coalizzata in maniera così forte contro fenomeni di razzismo nei confronti della popolazione afroamericana. E una delle soprese musicali più recenti è il nuovo album di Micheal Archer, in arte D’Angelo. Dopo quattordici anni di silenzio torna con ‘Black Messiah’ e lo pubblica addirittura in anticipo rispetto a quanto era stato originariamente annunciato proprio per dire la sua sui fatti di Ferguson. “L’unica maniera che ho di farmi sentire è attraverso la musica”, ha commentato: “Ecco, volevo parlare”. D’Angelo ha voluto commentare così l’uscita anticipata del suo nuovo disco. Nel booklet che lo accompagna leggiamo: “La canzone di protesta non deve necessariamente annoiare o tantomeno essere adatta ad accompagnare le prossime Olimpiadi. Deve solo poter dire la verità”. Sempre nel booklet viene spiegato il titolo del disco. “Abbiamo scelto ‘Black Messiah’ perchè vogliamo parlare di tutti quei luoghi da Ferguson, all’Egitto, ad Occupy Wall Street in cui una comunità di persone decide di attivarsi per generare qualche forma di cambiamento. L’album non è quindi dedicato al rapporto con un leader carismatico, ma vuole celebrare le centinaia di persone che possono scatenare il cambiamento”.

The Peace Poets canconi di protesta

The Peace Poets

L’esperienza dei Peace Poets

Dalla moltitudine per le moltitudini. Arriva da qui, dalle strade, la canzone di protesta e sta fiorendo nuovamente. Spesso i testi di questo brani nascono in maniera collettiva. Come quello di “I can’t breath” nato dall’esperienza dei Peace Poets, un gruppo collettivo di poeti . Questi testi, spesso semplici, hanno il vantaggio di poter essere ricordati e scanditi facilmente da tutti durante le marce e le manifestazione di piazza che sono indette dai vari movimenti per i diritti civili. Spesso è la presenza della canzone di protesta stessa a dare un DNA a questi gruppi di protesta, dando voce e sostanza alle rivendicazioni che questi stessi movimenti intendono portare avanti. E questi brani sono frutto dello spirito collaborativo che domani in genere nella rete. Proprio in nome di questo spirito collaborativo la figlia di Eric Garner ha inciso insieme ad un membro della sua famiglia il brano “This ends today”, dedicato al padre è messo in rete, nel cui finale suonano all’infinito quelle parole “I can’t breath” che fungono da elegia e da inno . E nonostante Ferguson sia già distante nel dibattuto politico statunitense, la memoria collettiva e le masse fortunatamente sembrano non aver perso traccia di quei fatti. A sorpresa la vicenda di Micheal Brown ed Eric Garner è tornata prepotentemente anche sul palco del Grammy dell’altra notte. Sotto il cielo della California i più improntanti artisti di colore si sono presentati uniti per affermare che “Black Lives Matter”. Il filo conduttore dell’intera serata sembrano averlo dato proprio i diritti civili, con un finale di serata tutto dedicato al film Selma. Quest’anno, a pochi giorni dal compleanno di Martin Luther King e in occasione del Black History Month, il Grammy Awards ha voluto omaggiare proprio Selma, la pellicola diretta da Ava DuVernay incentrata sulla marcia di protesta guidata dal pastore protestante leader dei diritti civil nel 1965, pellicola candidata agli Oscar nella categoria Miglior Film e per la Migliore Canzone Originale. Infatti, verso la fine dello show, Beyoncé ha regalato un ottima performance di ‘Take my Hand, Precious Lord‘ , seguita da quella di John Legend e Common che hanno cantato ‘Glory‘ , un’altra delle canzoni della colonna sonora del film. E chi era presente giura che sembrava che ci fosse tutta l’America ‘nera’ a ripetere con orgoglio “Io voglio poter respirare”!

Marco Bennici

L'Autore

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