Che gli autori della Pixar siano al vertice dell’attuale cinema di animazione, per tecnica e sceneggiatura non è una novità. Già nel 2015 Inside out aveva dimostrato come fosse possibile realizzare un film animato sulla psiche umana e il suo funzionamento, attraverso un cartone “a doppio registro“: sia per adulti che per bambini, talmente accurato e complesso da entrare a pieno merito tra i migliori film di quell’anno.
In “Coco“, il passo è ancora più rischioso perché il tema che sta al centro del cartone animato non è il passaggio dall’età infantile a quella adolescenziale, come ad esempio in Toy story 3, altro capolavoro d’animazione o nello stesso Inside Out; al contrario si tratta forse della tematica più difficile da affrontare sullo schermo: quella della morte.
Nella città messicana di Santa Cecilia, Miguel Rivera, un bambino di dodici anni con un’immensa passione per la musica, è costretto dalla famiglia a reprimere le sue naturali inclinazioni artistiche. La musica, infatti, è bandita da decenni in casa Rivera, a causa di un loro trisavolo, che per suonare e andare in cerca di fortuna aveva abbandonato moglie e figlio. Da quel momento in poi la famiglia si è dedicata a fare scarpe, formando generazioni e generazioni di calzolai. Stanco di queste proibizioni e alla ricerca di una chitarra per poter partecipare ad una gara musicale molto importante per lui, nel dies de los muertos, giornata della commemorazione dei defunti, Miguel ruba la chitarra dalla tomba di un morto, un famoso cantante messicano, non sapendo che le conseguenze di questo suo gesto sono destinate a sconvolgere gli equilibri del Mondo dei morti, in cui sarà costretto a recarsi per risolvere la questione…
Anche questo di Lee Unkrich e Adrian Molina, coregista e sceneggiatore, è un cartone a “doppio registro”, sia per adulti che per bambini. Un film che forse lascia emotivamente il segno più sui primi che sui secondi, proprio per le tematiche affrontate. La carica emotiva di Coco è potente. Difficile non provare commozione nell’assistere a questo film. La pellicola combina una grande tecnica visiva ad una sceneggiatura agile che si addentra con naturalezza in temi molto difficili. Lo sguardo del protagonista Miguel, infatti, non è soltanto quello di un bambino che entra in contatto con il regno dei morti, che nella tradizione messicana, fatta propria dal film, è un aldilà festoso in cui chi è ricordato dai viventi può vivere una seconda vita; ma è anche quello dell’adulto che si confronta coi rimpianti e soprattutto con la paura di essere dimenticati e di dimenticare chi non è più in vita. Temi non scontati come si vede, che non sono però mai rappresentati in modo macabro, né opprimente, come spesso siamo abituati, e proprio per questo, forse, colpiscono maggiormente nel segno.
La chiave di questa rappresentazione è probabilmente la scelta di ambientare il film nel mondo dei morti caro alle credenze messicane, durante il Dies de los muertos (giorno dei morti). Il cimitero in cui riposano i defunti è tutt’altro che lugubre (come quelli di burtoniana memoria), ma colorato e illuminato da centinaia di candele, così come la festa, un giorno di sacro giubilo, dedicato al ricordo, più che alla morte. L’adilà non è altro che l’amplificazione di questi elementi. Fantastica la sua rappresentazione visiva realizzata dagli autori del film, che sfrutta i colori e i temi della cultura messicana, a noi meno familiari e per questo maggiormente in grado di sorprenderci ( non a caso uno dei personaggi incontrati nell’Aldilà è la famosa pittrice Frida Khalo che allestisce una pittoresca coreografia teatrale). Anche gli scheletri che abitano questo mondo sono disegnati alla messicana con i tratti smussati e addolciti. Ricordano molto quelli del videogioco “Grim Fandango”, un geniale poliziesco ambientato appunto nella terra dei morti di stampo messicano, storica avventura grafica della Lucas Games.
In questo universo così sorprendente visivamente, in cui chi è maggiormente ricordato in vita gode di maggiori ricchezze, non mancano però anche lati oscuri. Coloro infatti che non sono ricordati dai loro parenti conducono una vita di stenti: si tratta quasi di un secondo aldilà, desolato, triste e solitario. Davvero toccante la scena in cui uno di questi dimenticati scompare nel nulla. Il mistero della morte riassunto con intensità e senza pateticismi in un’unica scena di un cartone animato: una soluzione difficile da realizzare e per questo fortemente invidiabile per la sua ottima riuscita. Senza rivelare niente della trama possiamo affermare che il finale di Coco è altrettanto potente: anche se facilmente intuibile come svolgimento della trama, è girato con una grazia tale da rimanerne incantati e sinceramente commossi. Sintetizza inoltre il messaggio finale di tutta la pellicola. Ciò che sorprende di questo pregevole e prezioso cartone animato poi è anche la scelta delle inquadrature, che molto spesso ricalcano quelle di un film. Coco è un cartone fortemente cinematografico che usa le progredite animazioni al computer per filmare i suoi protagonisti come se si trattasse di un film con attori in carne ed ossa, aggiungendo a questo l’estrema mobilità e flessibilità della macchina da presa che può essere disposta in posizioni difficlmente raggiungibili nella realtà. Merito senz’altro dell’acuta regia di Lee Unkrich, già autore del notevole Toy story 3, e del co-regista Molina, che ne è anche sceneggiatore. Molto intelligente la sequenza iniziale che racconta la storia della famiglia di Miguel attraverso ricami all’interno dei panni stesi ad asciugare.
Nel guardarlo non può non venire in mente un recente film d’animazione, interamente messicano, che affronta le stesse tematiche. Si tratta del “Libro della vita” di Jorge R. Gutierrez, ambientato anch’esso durante il dies de los muertos. Racconta del mondo dell’aldilà e di una scommessa fatta dalla regina Muerte e dal suo consorte , entrambe divinità del mondo dei morti, sul futuro di due ragazzini innamorati della stessa ragazza: chi dei due, una volta adulto, riuscira a conquistare il cuore della
Animazioni originalissime (ancora più “messicane” di quelle di Coco), grande senso dell’humor e cover di canzoni famose in stile mariachi sono gli elementi che compongono questo bel cartone animato, da cui Coco sembra aver preso spunto. Comune il tema del ricordo e quello della famiglia, vista anche qui all’inizio come un limite – come Miguel uno dei protagonisti vuore fare il cantante, invece che il mestiere esercitato per generazioni dai suoi parenti che osteggiano questa sua decisione – ma alla fine come punto di forza irrinunciabile. Ritornando all’opera di Lee Unkrich e tirando le somme si può dire che “Coco” sia il cartone animato dell’anno, meritevole senza dubbio dell’oscar come miglior film d’animazione. Lo è per la storia, per la sceneggiatura e la narrazione delicata, gioiosa e “spumeggiante”, che con disinvoltura e profondità affronta temi serissimi, quali quelli del ricordo, della morte, e del vero valore della famiglia; per l’emotività intensa e sincera, non spicciola, che offre sia ai grandi che ai più piccoli.