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Gianni Rodari

Generazione anni ’80: danni permanenti da cartoni giapponesi

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Generazione anni ’80

candy-candy

Candy-Candy

La mia generazione, quella dei “bambini Anni ’80” (ma non solo), è stata letteralmente corrotta dai cartoni animati giapponesi. I drammatici odierni rapporti uomo-donna sono il frutto di quella lobotomia frontale. Ammettiamolo, anche quello che adesso cerca di negarlo con tutte le sue forze ha vissuto un’infanzia connotata dall’ammirazione/amore verso improbabili personaggi. Siamo i ragazzini cresciuti con la tv commerciale, quelli che, tornati da scuola, facevano merenda incollati a “Bim, bum, bam”, il contenitore andato in onda su Italia 1 e Canale 5 per oltre vent’anni, dal 1982 al 2002. I due “filoni” erano ben suddivisi (ancora esisteva una netta differenza di ruoli, oggi inesistente, tra maschi e femmine). Ma spesso, come nel mio caso, si rompevano le righe e magari si preferiva seguire un Daitarn 3 alla pallosa Candy Candy. Ma, vista la delicatezza della tematica, è bene proseguire con ordine.

Femmine

Alle bambine erano rivolti dei cartoon-saga-telenovela (molto vicini, di fatto, al modello argentino per adulte, allora molto in voga) dove le protagoniste erano delle emerite disgraziate, trascinate dal Fato verso drammi inenarrabili. Penso, ad esempio, alla sfigatissima eroina di “Lovely Sara”, un anime prodotto in Giappone nel 1985 dalla Nippon Animation e trasmesso in Italia dal 1986. Mi faceva innervosire moltissimo a 7 anni. La storia era tratta dal romanzo “La piccola principessa” di Frances Hodgson Burnett e narrava le disavventure, spesso portate alle estreme conseguenze, della piccola Sara, una bambina appartenente ad una ricca famiglia, mandata a studiare in collegio. Rimasta orfana e povera, viene costretta a lavorare nell’istituto come sguattera. Ma come non menzionare l’apoteosi del genere, “Candy Candy”, la reietta abbandonata presso l’orfanotrofio religioso Casa di Pony, retto appunto da Miss Pony e da Suor Maria. A farle compagnia, l’animale domestico più improbabile, un procione di nome Klin. Ma ne potrei citare altri mille, di esempi. Il canovaccio era sempre lo stesso: la donna, da una condizione iniziale privilegiata, si trovava a vivere tutte le peggiori nefandezze e ielle cui la vita può sottoporti. Era sostanzialmente una figura passiva, incapace di reagire, se non attraverso un uomo-salvatore. Una perfetta disadattata tutta gridolini, lacrime e tremori.

Maschi

Ufo Robot

Ufo Robot

Cresciuti nel mito di ragazzetti rampanti con doppia vita: di giorno studenti modello, campioni di Formula 1; di notte conduttori di robot invincibili e capaci di annientare ogni male, circondati da oche giulive che rivestivano ruoli decisamente marginali. Su tutti i Mazinga & Co. spiccava “Jeeg Robot, uomo d’acciaio” (il che è tutto dire) un anime televisivo di 46 episodi prodotto dalla Toei Animation, nel 1975, su soggetto del grande Go Nagai. La serie fu trasmessa per la prima volta in Italia nel 1979. Nel nostro Paese ha riscosso un notevole successo, paragonabile solo a quello di altre grandi serie del genere, come “Ufo Robot Goldrake”. Ma quello che mi interessa capire è il messaggio. Maschi invincibili, perfetti, presuntuosi, bamboccioni e irrimediabilmente collegati ad una sorta di alter ego-automa senza il quale, di fatto, non erano nulla. Ma proprio nulla. Bene. Per me l’articolo può chiudersi anche qui. Il resto, tanto, è sotto gli occhi di tutti.

 

Carla Cace

L'Autore

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